ORDINAZIONE. Domenica 19 febbraio, la Chiesa di Rimini è in festa con Paolo Bizzocchi
A Capodanno mi trovavo in un piccolo villaggio della Siberia. La chiesa del paesino, costruita in legno da un prete tedesco, poteva ospitare al massimo 40 persone. In attesa di partecipare alla messa delle 18 celebrata da don Francesco, varco la soglia di questa casa di Dio per pregare davanti al tabernacolo. Si fa strada un pensiero: «A Rimini – e nel mondo – tutti festeggiano mentre io sono qui a -35 gradi, dentro una piccola chiesetta. Fuori non c’è anima viva e io sto guardando il Santissimo Sacramento. Sono davanti a Dio. Ma è tutto qui o qui c’è tutto?”.
La risposta, Paolo Bizzocchi la pronuncerà ad alta voce domenica 19 febbraio: in Basilica Cattedrale, a Rimini, dovrà risuonare il suo “Eccomi”. E per imposizione delle mani del Vescovo Nicolò Anselmi, Paolo Bizzocchi sarà ordinato presbitero della Chiesa riminese. Il primo ordinato da mons. Anselmi.
36 anni, riminese doc, Bizzocchi arriva a questo “traguardo” dopo un percorso iniziato nel 2010, ma che in realtà ha preso le mosse molti anni prima.
Quando, da adolescente inquieto, Paolo cercava risposte profonde alle domande fondamentali della vita.
“Sì, ero inquieto. In secondo media ho rischiato la bocciatura. Il motivo? Ero insoddisfatto della vita come lo sono tanti ragazzi. Volevo essere felice ma niente mi appagava, cercavo sempre di creare attenzione ed essere un polo di divertimento per gli amici. Insomma, riempivo i vuoti che avevo dentro di me”.
Qualche anno più tardi sei in seminario alla Fraternità San Carlo di Roma. Una decisione frutto di un percorso o una illuminazione sulla via di Damasco?
“L’insoddisfazione mi ha accompagnato anche nel periodo delle scuole superiori. La giudicavo un ostacolo invece ho scoperto che era un fuoco.
Con Gs (Gioventù Studentesca) mi appassionai a don Giussani e alla sua figura. Un video agli esercizi spirituali di Rimini mi mostrò questo anziano prete ma ancora innamorato di Dio e di Gesù.
Rimasi colpito da come aveva speso tutta la vita, da come si era consumato per Gesù, per come si era consumato e realizzato con i ragazzi.
La sua esperienza mi ha illuminato. Il primo pensiero a quel punto non fu, però, «Voglio diventare prete» ma «Voglio esser felice come lo è quest’uomo».
Servire con le modalità che mi saranno indicate e spendermi per il Signore”.
Don Giussani è stato dunque una figura fondamentale.
“Esattamente. E come lui, anche altri presbiteri come don Claudio Parma, ma anche il servizio in ospedale con la ‘caritativa anziani’.
Questa esperienza mi ha formato al servizio, al significato dell’aiutare, del portare Gesù e riconoscere Gesù nelle persone.
Spendersi per gli altri è importante per non restare centrati solo su se stessi. Quando ho smesso di guardare solo me stesso per cercare di colmare il vuoto che mi accompagnava, e mi sono arreso, figure come don Giussani e altri preti di Rimini hanno brillato nella mia vita in quanto persone felici, e così si è fatta strada l’idea di seguire Gesù come era accaduto a loro”.
Che esperienza è stata la Fraternità San Carlo?
“Il 3 settembre 2010 sono entrato in Seminario alla San Carlo di Roma con in tasca la laurea in Storia e Filosofia e dopo un percorso di verifica e discernimento a Milano.
Alla San Carlo sono rimasto per sei anni ma ho sempre mantenuto i rapporti con Rimini.
Essendo una fraternità missionaria, si restava in seminario ininterrottamente da settembre a fine luglio. Una volta a Rimini, però, andavo a trovare il Vescovo Francesco Lambiasi, i preti della parrocchia e raccontavo loro l’esperienza del seminario a Roma, il percorso e la missione”.
Ecco, la missione. Un’altra tappa decisiva nella tua vicenda.
“L’esperienza vissuta in Russia mi ha totalmente cambiato: sono tornato con metà cuore riminese e metà russo.
Quando studi una lingua entri dentro la cultura di un popolo, nascono amicizie, ti avvicini ai modi di vivere, di pensare e alla fede di un popolo martoriato, in questo caso da 70 anni di comunismo, che a volte ha fatto perdere la fede.
In Cattedrale alla domenica non frequentavano più di 80, 90 persone. Le chiese cattoliche sono poche, la maggioranza sono ortodosse e luterane, i cattolici sono l’1-2%.
È stata una esperienza mistica.
In Siberia ho toccato con mano come il sangue dei martiri deportati e fucilati ha fatto fiorire un popolo. Vivi congelato a -35 gradi ma in realtà il cuore delle persone è caldissimo. Mi ha dato un imprinting nuovo, vivere l’essenzialità. Per confessarmi mi sobbarcavo due ore di mezzi pubblici, 80 km per andare a lezione, non puoi uscire tutte le sere perché a – 38 gradi il corpo brucia molto per scaldarsi e occorre centellinare le forze e capire dove indirizzarle, non si può perdere tempo, occore verificare cosa conta nella vita”.
Ci sei riuscito?
“Con don Francesco (il prete con il quale abitavo) andavo a portare la comunione ad una anziana signora a 600 km di distanza da casa nostra, in una catapecchia. Mentre ripartivo mi sono chiesto: o siamo matti a fare tanti km e tante ore, o veramente in questo pezzo di pane c’è tutto e vale la pena affrontare ore e km. Portavamo Gesù. Ho imparato più nell’esperienza che nei manuali di sacramentaria”.
Poi sei rientrato a Rimini.
“Non è stato facile. Quando viaggi tanto il cuore si allarga, al rientro si deve riadattare e stare in una scatola. Ti sembra che la terra ti stia stretta. In realtà sono molto contento, perfettamente integrato e mi sento in missione.
La prima vocazione, infatti, non è essere missionario ma seguire Gesù. Oggi mi sento missionario, presbitero diocesano e con l’unico desiderio di portare Gesù alle persone”.
Che prete sarai?
“Guardando le persone innamorate di Gesù, che prediligono le relazioni con l’altro, non ho tanti schemi né ingegnerie pastorali: vorrei mettermi in gioco con le persone in maniera sincera e trasparente, coltivare rapporti con ragazzi, famiglie e anziani come ho sperimentato in missione. Poi ci si potrà organizzare”.
Cosa puoi promettere alle comunità a cui sarai destinato?
“Null’altro che essere sincero e limpido. Vivere la fede cristiana in maniera bella, divertente, attraente, vivace, in maniera vitale. Come diceva il Vescovo Francesco Lambiasi: la vita trasmette vita. E vita in Cristo”.
Paolo, come vedi il prete oggi?
“Una persona che esce dalla parrocchia e va nei luoghi dove vivono le persone che non frequentano più la chiesa: incontrarli, abbracciarli, ascoltarli, e stare con loro proprio come faceva Gesù al tavolo con pubblicani, peccatori e prostitute.
Vivere intensamente la parrocchia ma anche uscire dagli schemi, andare incontro agli altri e condividere.
Occorre mettersi in dialogo, non predicare e dispensare dogmi da una cattedra ma portare nei sacramenti, nella parola di Dio, nello stile e negli atteggiamenti una testimonianza da condividere”.