Ragazzi non studiate troppo: tre ore al giorno bastano e avanzano…” Parole che non ti aspetti in bocca a un professore di lungo corso. Uno abituato a stare in cattedra, a interrogare e mettere i voti. Lui è Stefano Zamagni, economista, docente all’Università di Bologna e padre degli studi sul Terzo settore. Ospite dei “Lunedì di Viserba”, il ciclo d’incontri estivi organizzato dalla parrocchia di Santa Maria al Mare, Zamagni è intervenuto per parlare della “Condizione giovanile nell’era delle piattaforme tecnologiche”. Titolo serioso che il prof è riuscito a trattare in modo leggero, dispensando per due ore filate consigli ai giovani in cerca di lavoro. Ma anche mettendo a fuoco i guasti, gli anacronismi del sistema scolastico e imprenditoriale del nostro paese.
Domanda e offerta non si incontrano
Che oggi il lavoro, anzi il “non lavoro” dei giovani, rappresenti un’emergenza nazionale è ormai un dato acquisito. Lo dicono le statistiche: in Italia il 28% degli occupati vive una situazione di precarietà lavorativa, senza alcuna certezza sul proprio futuro, e questa fetta di popolazione è composta in gran parte da giovani. Ancora: il 10% degli over 18 vive in condizioni di povertà assoluta contro il 4% degli over 60. Quella dei giovani è insomma oggi la prima generazione che pare destinata a stare peggio dei propri padri.
Eppure il lavoro non mancherebbe. Solo che spesso non si trova a causa del forte “disallineamento” tra domanda e offerta. Nel nostro paese sono 65mila i posti di lavoro scoperti perché non si riescono a reperire figure professionali adeguate nei settori più avanzati. Pensiamo al comparto della meccanica di precisione nelle province di Bologna e Modena. Così, l’industria 4.0 – quella più innovativa per intenderci – è costretta ad importare competenze dall’estero, l’India in particolare. Con l’evidente contraddizione che, nello stesso tempo, migliaia di giovani connazionali fanno il percorso inverso, andando a cercare un’occupazione adeguata fuori dal nostro Paese. Molte le cause di questa situazione. L’inadeguatezza dei Centri per l’impiego che “in Italia non hanno mai funzionato”, un certa arretratezza culturale di molte aziende che “assumono a braccio” senza dotarsi di un manager specializzato in risorse umane, ma soprattutto…
Le responsabilità della scuola
Zamagni punta senza remore l’indice sui ritardi del nostro sistema scolastico che definisce “vecchio di 80 anni”. Un sistema che punta al raggiungimento di “obiettivi formativi” e non di “competenze”. Con il risultato che un giovane che esce dall’Università potrà anche essere preparatissimo ma le sue nozioni, da sole, non bastano all’azienda. Ai tempi dell’economia della conoscenza, oltre alla necessaria preparazione tecnica, ciò che serve alle imprese che puntano all’innovazione sono le cosiddette “soft skills”, ovvero le abilità relazionali. Perché l’innovazione non è mai frutto di un’azione individuale ma è sempre un processo di squadra, basato sulla condivisione delle conoscenze. Un processo che purtroppo la scuola italiana non favorisce in quanto tuttora ancorata ad un’impostazione di tipo individualistico che privilegia il rapporto allievo/professore, frenando, se non osteggiando, la collaborazione tra compagni. È chiaro che, in tal modo, lo studente non potrà mai sviluppare quell’attitudine a lavorare in team oggi sempre più richiesta nelle procedure di selezione del personale. A questo proposito Zamagni ha fatto anche un riferimento personale, ricordando l’esperienza di componente delle commissioni di concorso all’ospedale Bambino Gesù di Roma e i tanti candidati, seppur preparatissimi, che venivano respinti perché troppo centrati su di sé e poco orientati al lavoro di gruppo. È un po’ come nel calcio: se in squadra c’è un campione ma il campione non collabora, la squadra perde.
Da qui il consiglio ai giovani che si diceva all’inizio: “Ragazzi non limitatevi a studiare ma sviluppate le vostre competenze relazionali…”. Come? Ad esempio facendo esperienza di associazionismo, dedicando qualche ora di tempo per partecipare alla vita di un’associazione, qualunque essa sia, imparando quindi a cooperare… Sono tutte esperienze che contano nella valutazione di un curriculum.
L’importanza dell’educazione
Ma lo scarto tra obiettivi formativi della scuola e competenze necessarie sul mercato del lavoro è solo la punta dell’iceberg dei problemi che affliggono il nostro sistema scolastico. Nel suo intervento Zamagni introduce una riflessione più generale sul ruolo degli insegnanti rispetto alle attese e ai bisogni dei ragazzi. “Non basta fare formazione. I giovani – dice il prof – hanno bisogno di strutturare una sorta di bussola interiore che possa aiutarli a prendere le decisioni migliori. Una bussola fatta di curiosità, entusiasmi, interessi, attitudini, passioni”. Che gli insegnanti hanno il compito di scoprire e potenziare, proponendosi nel ruolo di educatori e non limitandosi a puri trasmettitori di informazioni. La scuola nel nostro paese è purtroppo ben altra cosa: una scuola che divide artificiosamente gli istituti in quelli di serie A e di serie B, una scuola che ad esempio esclude in modo quasi “razzista” gli istituti professionali dallo studio della filosofia, quasi che per conoscere il pensiero di Socrate fosse necessario sapere il greco. Una scuola, soprattutto, che abdicando alla propria funzione educativa, non aiuta i giovani a difendersi dal loro nemico numero uno: quello che Zamagni chiama “individualismo libertario”, ovvero quel volere tutto senza limiti in nome di un illusoria ricerca di identità che passa per il “sono quel che voglio”.
Quale lavoro domani?
Ma cosa riserverà il futuro ai giovani d’oggi? Lavori stabili? Lavori precari? Sussidi assistenziali per sopravvivere? “Il futuro non è un destino ineluttabile ma è un progetto che costruiamo sin da oggi” è l’opinione del prof. “Il futuro è la conseguenza del presente, quindi sarà quello che noi vogliamo che sia…”. Allora chiediamoci: che lavoro vogliamo lasciare ai nostri figli? E, soprattutto, cosa intendiamo per lavoro? Un mezzo necessario per vivere e guadagnare soldi o un elemento fondante della persona umana? Anche citando il primo articolo della Costituzione (“l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”) Zamagni ovviamente non ha dubbi: riconosce l’utilità di soluzioni occupazionali temporanee ma definisce il precariato stabile un “non lavoro”. Così come non nega l’opportunità di misure limitate di lotta alla povertà ma dice no all’assistenzialismo generico e propone di dirottare le risorse destinate agli aiuti verso investimenti produttivi capaci di generare lavoro vero.
La serata si chiude con un sorriso ricordando una battuta di papa Francesco che, a un giornalista che gli chiedeva un parere sul reddito di cittadinanza, rispose: “Sarei più favorevole a un lavoro di cittadinanza…”. Tradotto: l’obiettivo non è un reddito per tutti ma un lavoro per tutti perché senza un lavoro per tutti non ci sarà mai vera dignità.
Alberto Coloccioni