Al Teatro Pergolesi di Jesi l’ultima opera di Puccini in una interessante esecuzione che si limita soltanto alla parte scritta dal compositore
JESI, 29 novembre 2019 – Il 26 aprile 1926, quando Toscanini diresse la prima di Turandot – lasciata incompiuta da Puccini, scomparso un anno e mezzo prima, e terminata da Franco Alfano sulla base degli abbozzi pucciniani – depose la bacchetta, fermandosi esattamente al punto in cui era arrivato il compositore. Dopo di allora, com’è ovvio, l’opera è stata eseguita per intero: con il finale di Alfano o, all’occasione, di differenti autori (negli ultimi decenni anche altri musicisti hanno voluto misurarsi con questo epilogo mancante).
L’esecuzione del Teatro Pergolesi di Jesi, terminando invece dove era arrivato Puccini, rappresenta un’operazione fuori dal coro. E, soprattutto, coraggiosa per un teatro di provincia. Per renderla più plausibile sono stati così aboliti i due intervalli in modo da avere un unico arco esecutivo, di durata complessiva inferiore alle due ore. L’eventuale delusione per la mancanza di epilogo in questa fiaba noir di Carlo Gozzi (trasformata per Puccini in libretto da Giuseppe Adami e Renato Simoni) è stata compensata dal riuscito allestimento di Pier Luigi Pizzi, che punta soprattutto sulla bellezza degli accostamenti cromatici per creare una elegante Cina mentale come, del resto, si addice a una vicenda fondata su profonde implicazioni psicanalitiche.
Lo spettacolo, nato alcuni anni fa per lo Sferisterio di Macerata e appena ripreso dalla Fondazione Rete Lirica delle Marche, non ha risentito del trasferimento su un palcoscenico di piccole proporzioni come quelle del Teatro Pergolesi: qualche problema, semmai, c’è stato sul versante musicale, con orchestra e coro a ranghi un po’ ridotti – per un’oggettiva mancanza di spazio – rispetto alle originarie dimensioni sonore della partitura. D’altra parte questo limite si è trasformato in vantaggio per alcuni solisti di non debordanti risorse vocali, che altrimenti avrebbero incontrato più di una difficoltà a misurarsi con la spessa orchestra pucciniana.
Non è però il caso della protagonista Tiziana Caruso, soprano drammatico di considerevoli mezzi e capace di salire in alto con estrema sicurezza: peccato solo che la mancata esecuzione della parte finale le abbia impedito di affrontare integralmente il ruolo della principessa Turandot, escludendo così il momento in cui il suo cuore si sgela per cedere all’amore. Accanto a lei, il tenore Francesco Pio Galasso è venuto a capo onorevolmente del personaggio di Calaf – il pubblico lo attende sempre al varco di Nessun dorma, superato senza particolari problemi – anche se ha delineato un personaggio non sempre ben rifinito, a causa di una voce disomogenea tra i diversi registri. Maria Laura Iacobellis, pur sottodimensionata vocalmente, è stata un’intensa ed espressiva Liù.
Il nutrito cast poteva contare, poi, almeno su altre due presenze di un certo pregio: Andrea Concetti – nobile e dolente in scena, sempre a suo agio nella scrittura di basso del vecchio Timur – e il tenore Cesare Catani, assai incisivo nel breve ruolo, caro ai grandi cantanti in fine carriera, dell’Imperatore. Nel terzetto dei ministri il Pang di Ugo Tarquini e il Pong di Vassily Solodkyy si sono fatti apprezzare più del Ping di Paolo Ingrasciotta, qui impegnato anche nel ruolo del Mandarino.
Qualche problema, soprattutto di appiombo ritmico, si notava poi tra buca e palcoscenico. La bacchetta di Pietro Rizzo, un po’ piatta nelle dinamiche e non sempre vigile nella guida di solisti e coro, ha perso l’appuntamento con più d’un momento magico, tra quelli offerti dalla musica di Puccini. Molto calorosa, in ogni caso, l’accoglienza del pubblico: anche le perplessità di coloro che non erano informati sulla versione che avrebbero ascoltato si sono sciolte, proprio come il ghiaccio della “principessa di gelo” Turandot, di fronte a uno spettacolo senza dubbio appagante.
Giulia Vannoni