“Quando sono andato in Liberia, pensavo di partire per un’emergenza. Mi sbagliavo. Quello che ho visto è una catastrofe umanitaria”. La sciagura chiamata Ebola non ha però impedito a Roberto Scaini di ripartire per l’Africa occidentale accompagnato dalla sua valigetta e con indosso solo il camice. 41 anni, riminese, Scaini da quattro anni lavora con l’organizzazione Medici senza frontiere. Il cuore e una scelta di coscienza l’hanno catapultato dai primi giorni del 2015 a Magburaka, nel bel mezzo della foresta della Sierra Leone.
In precedenza nella capitale Mongrovia è stato il responsabile medico di un centro di isolamento. “Da metà agosto la situazione è cambiata, ma non direi migliorata”. Il rischio, per il medico riminese, è che il virus sia presto dimenticato in Europa. “Sarebbe una catastrofe nella catastrofe”.
Una simpatica erre moscia, capelli cortissimi e barba folta, Scaini lascia a casa una figlia, una ragazzina di 11 anni. “Può sembrare egoista – sospira – ma dovevo tornare”<+testo_band>. Trascorso il Natale in famiglia, il medico anti Ebola si è rigettato nell’inferno africano sconquassato dal terribile virus. <+cors>“Un anno difficile il 2014… Abbiamo sentito le forze spesso al limite”. Quando ripensa alla stagione appena conclusa, sembra quasi aggrapparsi ad una frase di Spider-Man: “Da un grande potere deriva una grande responsabilità”. Lui che supereroe non è e non vuol sentirsi chiamare così, ama parlare di responsabilità. Lo ha fatto anche di recente a Montecitorio, di fronte alla presidente della Camera Laura Boldrini, lui uno dei protagonisti dell’incontro “Ebola, gli italiani che sfidano la paura”, vissuto assieme ad altri colleghi medici.
“Non possiamo aspettare il vaccino che verrà” è convinto il 41enne riminese ormai adottato dalla Liberia. Tra appelli, numeri e immagini tragiche, più di 3mila morti nell’Africa Occidentale, l’epidemia del virus sta assumendo proporzioni enormi e si diffonde in modo quasi incontrollato. “È definibile come catastrofe umanitaria, molto più che un’emergenza”. Il centro di Mongrovia che ha diretto, aperto nell’agosto scorso è diventato subito affollatissimo con 30 sospetti di infezione al giorno.
Con 600 contagiati e la metà delle vittime in Africa occidentale, Ebola fa paura in tutto il mondo: è una emergenza globale, il commento del presidente Obama. Il contagio aumenta e il tasso di mortalità è attorno al 60%. “Non sono un bravo matematico ma i numeri spaventosi richiamano alla memoria le persone che chiedono il nostro aiuto ai quali purtroppo non riusciamo a dare tutto il necessario a causa dei numeri troppo alti dei pazienti”. Ogni giorno è una sfida per il Dottor Robi, come lo chiamano gli amici. Con i propri occhi, il medico ha visto “migliaia di volti deformati dal dolore, le ambulanze cariche all’inverosimile di uomini e donne contagiate”, ha udito “i lamenti e i gemiti risuonare nei corridoi degli ospedali, e i pianti dei bambini che invocavano il nostro aiuto”. Scaini, però, non ha affatto intenzione di arrendersi. Con i medici e gli infermieri cura con la terapia di supporto oggi praticabile: una corretta idratazione, una corretta alimentazione e il trattamento per il paziente da infezioni di tipo batterico e parassitario come la malaria.
Scaini non ha dubbi: “La cosa più bella è andar dentro al centro, guardare negli occhi il paziente e annunciargli che il suo test è negativo”. Per un africano che festeggia per lo scampato pericoloso ce n’è uno nel letto a fianco che muore. “Anche i singoli cittadini possono darci una mano, con donazioni attraverso una semplice telefonata che permettono a noi di tornare sul campo, qui in Africa, per risposte concrete”.
Una delle cose più difficili nella vita del centro, è la continua protezione alla quale sono sottoposti gli operatori sanitari. Il contagio di Ebola avviene attraverso fluidi, Scaini e gli altri senza paura debbono essere completamente protetti cioè coperti. Indossano perciò una sorta di scafandro, una muta sulla quale per non spaventare i pazienti “scriviamo il nostro nome sul cappuccio o disegniamo uno smile”. C’è un elemento che non si vede né dalle fotografie che circolano in Occidente né dagli emozionanti video girati dalle tv e dai reporter. L’umanità che il Dottor Robi offre quotidianamente ai suoi pazienti. “A tutti i pazienti, e specialmente ai bambini. – assicura il 41enne riminese – Li abbracciamo sempre. Poi c’è il mio codice personale: ci scambiamo il «cinque» e lo porto all’altezza del cuore. Per i contagiati di Ebola, è il segnale che Doctor Robi offre ancora speranza, c’è la possibilità di guarire”. Un semplice “cinque” al cuore è quel piccolo segno di umanità che fa la differenza. Anche contro Ebola.
Paolo Guiducci