Fino a poco tempo fa chi entrava nella chiesa della Colonnella si trovava sulla destra un crocifisso inespressivo e ordinario, quasi nero, per il contrasto che facevano col corpo del Cristo il perizoma bianchissimo e lucido, e la parete bianca della cappella. Qualcuno ha intuito che sotto quella vernice scura si doveva celare qualche sorpresa.
Ora è stato restaurato e ha cambiato faccia, anzi pelle.
Sotto ben due strati di verniciature che ne avevano completamente falsato l’aspetto, il corpo di Cristo ha ritrovato il suo incarnato naturale; e il perizoma il colore e le decorazioni originarie. Il restauro, ci dice Rossana Allegri che l’ha ottimamente eseguito, è stato un’avventura emozionante perchè, mano a mano che le ridipinture venivano pazientemente rimosse, la scultura sembrava riprendere vita. A parte gli inevitabili danni dei tarli e molte scalfitture, la scultura era quasi intatta; e sulla pelle chiara, tesa sulla gabbia toracica e stirata sulle braccia, molle sul ventre, rivelava dei particolari dipinti con una finezza e una puntigliosità impensabili: i capelli sulle spalle, le ciglia degli occhi socchiusi, i denti tra le labbra appena aperte, le lacrime (sottolineate irrealisticamente dall’ombra portata) che solcano le guance, le gocce di sangue che colano dalla corona di spine fin sul petto, il sangue che esce a fiotti dal costato e scende fin sotto il perizoma.
Dal punto di vista della tipologia e dell’iconografia si tratta di un’opera lignea piuttosto comune, ma eseguita con molta cura, con molta attenzione per l’espressività e per l’anatomia, senza per questo essere puntualmente realistica. Gesù è raffigurato già morto: i sussulti dell’agonia sono cessati e il corpo è immobile, allineato sul legno della croce, con la testa appena reclinata. I canoni anatomici sono rispettati rigorosamente, ma con l’intenzione di formare una figura idealizzata in senso eroico: per suggerire che la morte non ha cancellato né avvilito la bellezza del corpo mortale del Cristo, che si offre a noi con tutti i segni di un atroce martirio, ma che è pronto a risorgere in maestà.
Nessun documento ci aiuta purtroppo a collocare nel tempo e nello spazio quest’opera, ma lo stile fa pensare al Cinquecento, il secolo di Raffaello e di Michelangelo, in cui artisti e artigiani avevano conquistato nell’arte un’abilità straordinaria. Direi anzi alla seconda metà di quel secolo, dopo il concilio tridentino, quando tutte le chiese erano tenute ad avere – come oggi – il loro crocifisso sull’altare o accanto all’altare, per indicare il luogo privilegiato dell’edificio sacro, quello del Sacrificio mistico; quando i visitatori vescovili ordinavano con severità alle chiese che ne erano sprovviste di procuraselo; e quando tutte le confraternite vantavano il loro crocifisso e lo portavano nelle processioni e nei pellegrinaggi, e ne avevano cura “rinfrescandone” di tanto in tanto il colore (cioè ridipingendoli!).
C’erano allora diverse botteghe specializzate nell’eseguire crocifissi, che non sono sculture normali dovute a normali scultori: infatti la loro struttura richiede incastri particolari, e accorgimenti tecnici che ne favoriscano la durata e la stabilità; accanto agli scultori poi dovevano operare i pittori, specializzati nel dipingere l’incarnato e i particolari anatomici, perché lo scultore non sempre era anche pittore. I Crocifissi scolpiti della nostra zona sono almeno una ventina, e non appartengono tutti allo stesso tempo e alla stessa bottega, o, se si preferisce, alla stessa cultura. Hanno origini varie: in qualche caso sono dovuti ad artisti itineranti, ma generalmente venivano importati da botteghe venete, toscane, marchigiane. Qualche volta sembrano anche di artigiani locali. Sarebbe interessante tracciare una mappa di queste provenienze, e anche tentare datazioni più plausibili di quelle ora in uso, che li rimandano in gran parte al Trecento e al Quattrocento e li considerano capolavori “antichissimi”, quando invece si tratta magari di rinsecchite opere arcaizzanti locali. E sarebbe interessante individuarne i committenti. Nel nostro caso sappiamo che nel Cinquecento la chiesa della Colonnella era affidata ai frati Gerolomini: potrebbero essere stati loro a commissionarlo o ad acquistarlo, ma occorre essere prudenti, perchè i sovvertimenti dovuti all’invasione francese di fine Settecento e alle leggi seguite all’unità d’Italia, hanno sconvolto e rimescolato l’assetto e gli arredi delle chiese, e il nostro crocifisso, come altre opere, potrebbe essere stato portato alla Colonnella da qualche altra chiesa.
Mi dicono che un esemplare gemello del nostro Crocifisso si trova nelle Marche: un altro molto simile, di dimensioni minori e di modellato più raffinato, è conservato nella chiesa di Santa Maria delle Grazie. È probabile che siano prodotti della stessa bottega, forse marchigiana. Ma infine questo conta poco. Si tratta di figure fatte per esprimere altro che se stesse: espongono l’immagine del corpo del Redentore, l’Uomo-Dio, che “si è offerto in sacrificio per noi”. Per questo il crocifisso deve stare vicino all’altare, che rappresenta il Calvario, e ben in vista, di fronte all’assemblea dei fedeli.
Non mi dispiacerebbe se nella Colonnella questo bel crocifisso trovasse una degna e stabile collocazione nella conca armoniosa dell’abside, al posto della miracolosa Madonna che ha dato origine alla chiesa, e la cui sede originaria, naturale e privilegiata, è nella cappella di sinistra, dove è stata peraltro fino a due secoli fa, dove potrebbe risultare più intima e accorata la nostra invocazione a “pregarla per noi peccatori”.
Pier Giorgio Pasini