In questi giorni di polemica sul multiculturalismo e le società multietniche, dovremmo provare a volgere lo sguardo altrove. Verso il Canada, ad esempio, un paese di cui si parla sempre poco, ma di cui, invece, ci si dovrebbe occupare più spesso. In primo luogo perché nel territorio del nord America vive e prospera una comunità italiana di quasi due milioni di persone, di cui un terzo nella sola città di Toronto e in secondo luogo perché, per rimanere nella bella Toronto, degli oltre quattro milioni di abitanti della città, la metà è nata in un altro paese. Non in un’altra città del Canada. Proprio in un altro paese. E vivono bene. Orgogliosi delle loro tradizioni e della storia che portano con sé, e nel contempo orgogliosi di essere canadesi. In questo caso, in che modo si può parlare di immigrati? Qual è la differenza tra chi è arrivato prima e chi dopo? Difficile a dirlo, i confini sfumano. Sembra quasi un’immagine del mondo prima dell’avvento del nazionalismo, quando molti regni e imperi accoglievano genti diverse senza porsi il problema della convivenza.
È quasi una Babele, Toronto, con più di 100 lingue e dialetti parlati. Tra queste lingue c’è anche quella italiana. E la comunità del Belpaese è così radicata nel nuovo territorio e nel contempo attaccata alla propria italianità, da avere un proprio organo di informazione: il Corriere Canadese, un quotidiano fondato nel 1954, che raggiunge centomila lettori nella sola zona di Toronto e dell’Ontario. In aggiunta, ogni fine settimana, il giornale esce in versione tandem: in italiano e inglese, per portare un po’ di colore italico anche nella popolazione più ostinatamente anglofona! Questa edizione, infatti, si rivolge sia ai figli di ormai seconda e terza generazione di italo-canadesi, che parlano italiano con difficoltà, sia agli altri abitanti del Canada interessati alla vita italiana.
Caporedattore centrale del Corriere Canadese – la persona, cioè, che decide quali notizie pubblicare e in che modo – è il riccionese Francesco Veronesi.
Francesco, la prima domanda nasce spontanea: come finisce un ragazzo della provincia di Rimini di poco più di 30 anni (è del 1975) ad essere caporedattore del Corriere Canadese?
“È avvenuto un po’ per caso, ho iniziato a fare il giornalista a Rimini, lavorando per qualche rivista locale. Poi, nel 2001, mi sono spostato a Bologna per seguire la Scuola di giornalismo. Nel 2003 sono diventato professionista. Sono stati anni un po’ particolari. In realtà non avevo chiaramente idea di cosa fare. Anche a causa di una lunga storia finita avevo voglia di cambiare un po’ aria, e così quando ho letto che il Corriere Canadese cercava un giornalista per la redazione di Toronto mi sono detto: perché no?”.
All’inizio Francesco parte con l’idea di stare via qualche mese, di fare un’esperienza. Ma, come capita spesso, le cose prendono una piega inaspettata e Francesco inizia a fare carriera e negli anni diventa caporedattore centrale.
“Il mio lavoro inizia la mattina alle 11.30. Arrivo in redazione e controllo mail e notizie. Poi faccio una riunione con tutta la redazione per fare il punto della giornata. A questo punto inizia la lavorazione del giornale. Alle 17.30 facciamo una seconda riunione per definire le ultime cose e comporre lo scheletro del Corriere, e poi avanti tutta fino alle 21, ora di chiusura!”.
Ma non è solo lavoro. Giorno dopo giorno Francesco si innamora anche della città.
“Toronto è una città unica, fantastica. Avevo già vissuto qualche mese a Londra, ma per me, che ho passato a Riccione tutta la prima parte della mia vita, arrivare nella downtown e vedere grattacieli di oltre 100 piani e una città in continuo movimento, è stato davvero spaesante, all’inizio”.
Com’è stato il tuo arrivo in Canada?
“Sicuramente la comunità italiana ha fatto un po’ da cuscinetto, rendendo più morbido l’atterraggio! Sono quasi 700mila gli italiani di Toronto, e questo aiuta. Per il resto, però, ho trovato la città molto accogliente. È normale, qui, avere a che fare con molte persone diverse. Si può dire che quasi nessuno ci fa caso! Certo, ho avuto anche le mie difficoltà. I rapporti personali qui sono molto anglosassoni. Un po’ più freddi, quindi, e soprattutto legati ad un rituale complesso e preciso, e la tipica schiettezza romagnola non è sempre la migliore carta da giocare. Ho dovuto imparare a mediare l’immediatezza. Ad essere un po’ meno spontaneo”.
Eppure il tipico calore italiano ha anche una presa positiva sui canadesi, che considerano gli italiani molto alla moda.
“Qui tutto ciò che è italiano viene subito amato: le persone, il modo di vivere e tutto il made in Italy in generale! Penso che questo dipenda anche dal fatto che i canadesi sono un popolo giovane, con poca storia alle spalle: quando conoscono l’Italia e la cultura e l’arte che le appartengono rimangono scioccati! Vanno letteralmente pazzi per la nostra storia, i monumenti, ma anche per la musica contemporanea e il cinema. Se arriva Bocelli per un concerto sono letteralmente in delirio! E ovviamente, amano la nostra cucina e il nostro vino, e le storie delle persone che vivono e producono queste cose”.
E dall’altra parte? Come vedi tu ora l’Italia e soprattutto Rimini?
“Non mi pare che in Italia, in questo momento, la situazione sia delle migliori. Ma non dispero! Ho fiducia. Dal punto di vista personale invece, mi trovo in uno strano limbo. All’inizio ho sentito la mancanza di cose che davo per scontate, come il nostro mare, l’estate, la vita riminese, ma anche la famiglia e gli affetti. Uno è sempre convinto di avere tutto sempre a portata di mano. Poi mi sono accorto che non è così, e devo dire che il senso di distacco è stato davvero lacerante. Ma col passare del tempo ho cominciato a sentire mia anche Toronto, ad affezionarmi, a viverla e a portarla con me. E ora mi trovo un po’ in mezzo. Ovunque sono mi manca qualcosa. È come una maledizione, strana ma nel contempo piacevole”.
Tu vivi in America, in un mondo moderno e multiculturale, ma hai continuamente a che fare con l’Italia e le sue beghe. Com’è il nostro paese visto attraverso la lente americana? Un po’ provinciale?
“Può darsi che l’Italia sia un po’ provinciale, che ami parlarsi addosso e guardare le proprie cose invece di concentrarsi sull’estero. Ma questo non è un aspetto solamente negativo. Paradossalmente, in una società ultracapitalistica come quella americana e nord europea, l’atteggiamento italiano crea come una specie di scudo, che in qualche modo salva parte della propria identità”.
Sono stati sei anni davvero tumultuosi per te. Dal 2003 hai cambiato paese, hai trovato un nuovo lavoro in cui hai fatto carriera e hai cominciato ad assorbire la cultura canadese, vivendo una tensione continua tra Rimini e Toronto.
“Vengo a Rimini un paio di volte l’anno. Mi piacerebbe farlo più spesso ma un giorno di viaggio e sei ore di fuso sono davvero tante da sopportare e non è facile organizzare viaggi dell’ultimo minuto. E poi, ora, a trattenermi qui c’è anche una nuova famiglia”.
Si chiama Danyele ed è, guarda caso, italo-canadese, figlia di genitori siciliani.
“Ci siamo sposati due anni fa, nel 2007. Ma il matrimonio l’ho voluto in Italia. E così la cerimonia si è svolta a Montegridolfo, dopo una lunga festa sulla spiaggia di Riccione. È stato un bellissimo momento. Danyele era già stata in Italia ma poche volte e non parlava bene l’italiano. Ci siamo aiutati a vicenda, io con l’italiano e lei con l’inglese. A luglio arriverà il nostro primo figlio”.
Stefano Rossini