I cinema italiani l’hanno in pratica “oscurato”. Ma com’è già successo in precedenza ad un’altra pellicola che racconta una fetta di storia polacca, questo film è diventato in pochi mesi un vero e proprio caso. A Rimini, Popieluszko. Non si può uccidere la speranza , l’opera dedicata al prete martire polacco ucciso dal regime Comunista nel 1984 a 37 anni, è approdata in “sala” solo per tre giorni in dicembre e altrettanti in gennaio.
Jerzy Popieluszko è stato ucciso dal regime perché predicava la libertà interiore e appoggiava il movimento di Solidarnosc, sindacato indipendente nato nel 1980 sotto la guida dell’operaio cattolico Lech Walesa (premio Nobel per la pace nel 1983).
Le associazioni “Stalker” e “Portico del Vasaio” hanno ospitato, a Rimini, il regista Rafal Wieczynski. Peccato – data l’esiguità delle proiezioni – che l’incontro con Wieczynski abbia coinciso con la serata del film al “Tiberio”.
Il coraggio del prete di Solidarnosc ha coinvolto in prima persona anche il regista, che all’età di 16 anni ha “marinato” la scuola per partecipare ai funerali. Noi, Rafal Wieczynski, lo abbiamo incontrato e intervistato.
Ha impiegato sette anni per girare il film. Qual è stato lo sforzo maggiore?
“Il lavoro è stato imponente: 120 location in 14 città diverse, 7mila comparse e 250 attori sul set. Uno sforzo enorme non solo per il tempo ma anche per il lavoro di documentazione che ha preceduto le riprese. Ho incontrato molte persone, fatto migliaia di interviste alla gente che aveva conosciuto Popieluszko per capire la sua personalità, che libri leggeva, che pellicole guardava. Molte scene sono state girate all’aperto e il meteo era fondamentale, così alla fine gli attori invece di ripassare il copione consultavano le previsioni meteorologiche! Il film, inoltre, miscela immagini di repertorio e scene filmiche, per cui sono serviti effetti speciali che uniformassero le due dimensioni”.
Settemila comparse in scena. Com’è stato lavorare con tante persone?
“Abbiamo iniziato con una messa sulla tomba del prete, dissi a tutti che sarebbe stato lui a guidarci. Nel cast c’erano operai, liberi professionisti, medici, che da 20 anni fanno turni di preghiera sulla sua tomba. Alcuni recitano se stessi. Parlando con loro, mi sono reso conto che padre Jerzy non conosceva nessuna falsità, perché non si può mentire a un professore e a un operaio insieme: aveva rispetto per tutti e tutti lo rispettavano come autentico testimone del Cristo”.
Chi era Popieluszko?
“Un uomo che seguiva Cristo con naturalezza. Non era un eroe, semplicemente cresceva rispondendo alle sfide che la vita gli metteva davanti. Aveva problemi con le parole, ci metteva molto a scrivere quelle prediche che poi divennero famose. Non di rado nella storia Dio si serve di persone deboli per fare cose grandissime. Padre Jerzy sognava di viaggiare e amava ricevere dai giornalisti che incontrava piccoli gadget da collezionare. Sapeva chi tra i suoi amici trasmetteva notizie ai servizi segreti ma non chiudeva mai la porta a nessuno perché tutti erano uomini. L’unico atteggiamento ostile lo ebbe per una persona che non andò a festeggiare il suo onomastico”.
Prima del film aveva già girato un documentario sul prete polacco: da dove nasce il suo interesse?
“Popieluszko è un personaggio importante in Polonia ed è anche molto attuale: predicava che la libertà interiore viene da Cristo. Occuparmi di lui per me è un dovere perché è stata una persona straordinaria e in Polonia non ne parla nessuno. Stiamo assistendo a una deriva pericolosa: il Governo ha deciso di limitare nelle scuole le ore di insegnamento della storia. Non è la prima volta che succede e ogni volta sono i pittori, i registi, gli scrittori ad attivarsi per farsi carico di questa responsabilità storica”.
Com’è stato accolto il film in patria?
“L’hanno visto un milione trecentomila persone nei primi giorni. Mi ha colpito la reazione di indignazione dei giovani che non ne avevano mai sentito parlare. Eppure non è passato molto tempo. Penso che per i giovani questo film sarà un riferimento per capire la storia d’Europa e il ruolo della Chiesa. In Polonia si prova a negare il ruolo della Chiesa nella storia e anche se metà della popolazione va in Chiesa e l’80% si dichiara credente, nei media polacchi non c’è niente di politically correct per la Chiesa”.
Il sottotitolo in italiano è Non si può uccidere la speranza. Cosa ne pensa?
“Il titolo italiano è preso da uno striscione portato al suo funerale, ma non c’entra con l’essenza del film. Il vero sottotitolo è La libertà è dentro di noi. Popieluszko diceva che la libertà è dentro di noi e che l’uomo deve partire dalla libertà che gli viene da Cristo. Per lui la libertà è espressione dell’amore di Cristo per noi: Dio ci ama talmente da volerci liberi e lui voleva che il nostro scopo fosse sviluppare questa libertà e attraverso questa, anche la libertà della patria. Questo lo rendeva un personaggio scomodo e per questo è stato ucciso. E quando i suoi nemici gli dissero sarcastici «Le auguriamo la libertà», lui rispose: «Ma io sono libero!». C’era la legge marziale”.
Qual è l’insegnamento che ci lascia?
“Saper distinguere il bene dal male e non aver paura di dargli un nome, questo è l’insegnamento di Popieluszko. Nell’oppressione della politica attuale, noi perdiamo il senso del bene e del male. Invece dobbiamo tornare alla libertà per dare il nome al bene e al male, chiamare le cose con il loro nome”.
Nonostante la presentazione ufficiale del film in Italia come evento speciale al Festival di Roma, la distribuzione è stata sotterranea. Come lo spiega?
“Le rispondo come direbbe Popieluszko: per dire la verità non c’è bisogno di molte persone, solo la politica e la legge hanno bisogno del consenso del popolo”.
Perché in Italia è importante risvegliare la memoria di Popieluszko?
“L’altro giorno sono sceso alla stazione di Bologna, ho visto «via Stalingrado» e ho capito che in Italia non sapete cosa vuol dire Comunismo: qui il Comunismo è stato un’idea, in Polonia invece è stato realtà. Vorrei che gli italiani sapessero che Solidarnosc combatteva contro le bugie, il Diavolo e la violenza imposti dal Comunismo. Non capisco la riverenza occidentale per Stalin: dal 1932 al 1937 Stalin decise che non ci fossero religioni in Russia. Se le persone si radunavano per pregare, arrivavano i servizi segreti, li circondavano di filo spinato e li uccidevano. Grazie al libro nero del Comunismo oggi sappiamo che il regime ha fatto 100 milioni di vittime”.
E per lei, cosa rappresenta Popieluszko?
“È molto importante per la mia famiglia. Avevo 16 anni quando Popielusko fu ucciso e tutta la mia classe tranne uno marinò la scuola per assistere ai funerali. Oggi sono padre di un figlio di 16 anni e la presenza di Popielusko continua ad essere un punto di riferimento, per me come per lui”.
Romina Balducci