Tutti (o quasi) sanno grazie al cinema – chi sono i vitelloni (in Italia e pure nel mondo). Ma forse non tutti sanno, che il termine non fu ideato da Federico Fellini bensì dal suo sceneggiatore (e grande scrittore) Ennio Flaiano. Una derivazione dall’abruzzese “vudellone”: una budella da riempire.
Il tema 2020 del tradizionale “Processo” storico di San Mauro Pascoli, è stata l’occasione per fare chiarezza sul termine, sui suoi addentellati e per dare a Flaiano ciò che è di Ennio.
Secondo alcuni, il “vitellone” è il seduttore per eccellenza della Riviera romagnola, per altri impersonifica il maschilista tout court. In ogni caso è uno dei termini felliniani entrati di prepotenza nel vocabolario di casa nostra. Insieme a “dolce vita” e “amarcord”, “vitellone” forma una triade linguistica che – potenza del cinema – si è imposta nel linguaggio internazionale.
Ma se gli ultimi due hanno una valenza tra il positivo e il melanconico, ben più controverso è “vitellone”.
A cercare di sbrogliare la questione ci ha provato dunque il tradizionale Processo a San Mauro Pascoli. Il giorno e il luogo dell’udienza sono fortemente simbolici: il 10 agosto è la data dell’uccisione di Ruggero, il padre del poeta Giovanni alla Torre pascoliana (1867). L’evento, promosso dall’associazione pubblicoprivata Sammauroindustria, nelle edizioni precedenti ha portato alla sbarra personaggi che hanno fatto la storia della Romagna e dell’Italia (Mussolini e Mazzini, Secondo Casadei e Garibaldi) ma anche la rivoluzione russa e quella del ’68.
Il “Vitellone” è finito alla sbarra in questa edizione omaggio al centenario di Federico Fellini e a pochi giorni dalla scomparsa di Sergio Zavoli, che del regista non era solo compaesano riminese ma amico di una vita. Proprio ai “Vitellini” (non è un errore ortografico bensì il titolo dell’opera), Zavoli dedicò nel 1962 un interessante documentario sviluppando l’analogia tra vitellone e seduttore da spiaggia, e mettendo in luce alcuni delle accezioni più negative che solitamente si applicano a questo ‘carattere’: l’incapacità di crescere e di maturare, di staccarsi dall’adolescenza, il maschilismo radicale.
In una Repubblica ‘fondata sul lavoro’ questi aspetti rappresentano assai gravi capi d’imputazione.
“Vitellone è uno che non fa nulla e campa, anche in età da lavoro, sulle spalle della famiglia – spiega Miro Gori, esperto di cinema, fondatore del Processo e presidente del Tribunale sammaurese – Perfetta da questo punto di vista è la rilettura felliniana di Amarcord dove in Lallo, zio del protagonista Titta, la figura del vitellone si fonde con quella del pataca”.
Daniela Preziosi non ha dubbi: “I Vitelloni restano un monumento alla peggio gioventù maschile, regredita al comodo eterno stato infantile, mammoni e traditori, bandiere di un’inconcludenza che è indifferenza. – è la pesante accusa portata dalla giornalista de Il Manifesto e autrice di premiati documentari – Bighellona, bovina, bulla, banale, irredimibile”.
Insomma, i vitelloni come “giovanotti renitenti alla crescita”, cioè “personaggi irriscattabili, vanno condannati senza appello. Salvo solo Moraldo, quello che alla fine del film se ne va. Il personaggio è Fellini, solo per lui chiedo l’assoluzione”.
In una Italia che riparte dopo il dramma della Guerra, i Vitelloni rispondono con l’emblematico gesto dell’ombrello di Alberto Sordi a chi lavora. Come difenderli?
Gianfranco Angelucci, stretto collaboratore del celebre regista, punta sul fraintendimento. “I luoghi comuni, le convenzioni, nascondono spesso pregiudizi che conducono verso una strada sbagliata; i Vitelloni sono ben altro da ciò che in molti pensano, e ci stupiremo insieme a scoprire quanto la loro natura, che ci appartiene così da vicino, rappresenti forse la nostra parte più nobile”.
Angelucci prende tutti in contropiede e rilancia: “Io non difendo il Vitellone ma lo elogio: è l’archetipo dilatato dell’Italia, un eroe del nostro tempo. La società ci rende ingranaggi di un sistema, il Vitellone esce dagli schemi. È un non integrato, un individualista che risponde solo a sé stesso, i legami del sangue vengono prima di tutto. È un sentimentale con le donne, le fa piangere ma lui piange insieme a loro. Il Vitellone non vince guerre perché non le fa e non le provoca”.
Basterebbero alcuni “vitellonacci” (parole sue) che hanno fatto la storia del cinema a redimere la questione. “Gassmann e Sordi nella Grande Guerra di Monicelli: due furbetti che diventano eroi. Il Bruno Cortona sempre di Gassman ne Il Sorpasso, Sordi ne Una vita Difficile di Dino Risi. Sono tutti personaggi che è impossibile non amare”.
“La bandiera dei Vitelloni è mi spezzo ma non mi impiego”. “Ecco, faccio mia questa battuta di Flaiano e proprio per questo chiedo l’assoluzione”, chiosa Angelucci.
Forse con una mano sul cuore per rispetto e devozione nei confronti di Fellini, e forse timoroso di doversi guardare allo specchio, munito di paletta il pubblico ha concluso senza condannati né assolti. 219 voti per entrambi e un inedito “non verdetto”. Nella storia ventennale dell’evento è la prima volta che accade un pareggio.