La chiesa di Santa Rita è rinnovata. Ma non chiamatela più così d’ora in avanti! Quel nome che piace tanto ai riminesi non è esatto, e il restauro, oltre a riportare alla luce le opere d’arte custodite all’interno della chiesa e una bellezza quasi dimenticata, le ha restituito anche l’antica denominazione: Chiesa dei Santi Bartolomeo e Marino.
Diversi gli interventi di restauro mirati alle singole opere d’arte che si sono succeduti negli ultimi 30 anni. Quello appena concluso, a differenza dei precedenti, ha operato soprattutto su pareti e affreschi, con l’effetto di donare all’intera chiesa nel suo complesso un respiro armonioso e uno splendore intenso.
Lavoro quanto mai necessario se pensiamo che la chiesa dei Santi Bartolomeo e Marino è una delle più antiche di Rimini e custodisce al suo interno opere d’alto valore storico e artistico. Opere rimaste sepolte per secoli, celate anche agli occhi più attenti da un velo cupo sedimentato dal tempo; ora finalmente ritrovano una luminosità nuova in grado di farle brillare con forza.
Mauro Ferrante, docente al conservatorio di Pesaro, nonché ispettore onorario per gli organi storici, intona l’organo accompagnando, con note solenni, i nasi all’insù, le bocche aperte e gli occhi sgranati del pubblico sorpreso da tanta ritrovata bellezza. L’organo stesso è un’opera d’arte: è l’unico esemplare superstite del veneziano Gaetano Callido, che lo realizzò per Rimini nel 1790.
È mons. Aldo Amati, delegato vescovile ad universitatem casuum della Diocesi di Rimini, ad aprire l’assemblea e a guidare per primo gli occhi dei partecipanti sulle pareti finalmente sbiancate, tra gli affreschi di Giorgio Picchi, intorno al coro ligneo del 1491, su al soffitto pieno di colori, giu per le canne dell’organo, per risalire poi all’acquasantiera marmorea del ’500.
Il merito del restauro va alla Diocesi di Rimini, alla fondazione Carim, alla soprintendenza di Ravenna ai beni culturali e architettonici, nonché al direttore dei lavori di restauro Francesco Baldi e al dottor Piergiorgio Pasini. E un ringraziamento sentito va all’intero staff dei restauratori che pazientemente ha ridato la vita a quel che ormai ne pareva privo e a tutti i tecnici che hanno seguito i lavori.
Il Vescovo di Rimini, mons. Francesco Lambiasi ricorda all’assemblea che la chiesa, nella tradizione biblica, è templum e domus. Costruire una casa per Dio è l’impresa più ambiziosa dell’uomo. “Questa chiesa è Domus e Templum: domus per le sue dimensioni contenute, che permettono di sentirsi a casa. Templum per la solennità della Liturgia che vi viene celebrata. Mi auguro che questa chiesa sia per tutti casa e tempio (famigliarità e solennità)”.
La chiesa: luogo sacro e robusto museo
“La chiesa è un meraviglioso robusto museo dove i capolavori si distribuiscono secondo le loro ragioni profonde, secondo i loro ritmi”. Andrea Emiliani, storico dell’arte, descrive così le opere d’arte svelate dal restauro. E si parla di veri e propri capolavori. A cominciare dall’abside. Esso reca gli affreschi di Giorgio Picchi del Montefeltro raffiguranti scene della vita di San Marino(1595). Sulla volta del Coro si possono ammirare gli affreschi tardocinquecenteschi raffiguranti San Marino in adorazione della Santissima Trinità del bolognese Bartolomeo Cesi. Il Coro ligneo intarsiato è ancora più antico: risalente al 1494, è composto da 22 seggi in noce e sarebbe opera di maestranze venete o modenesi. Sulla fiancata destra della chiesa, l’affresco seicentesco raffigurante La Madonna col bambino e Sant’Ubaldo, opera del modenese Francesco Stringa (1635-1709) e il San Michele Arcangelo(1579) di Giovanni Laurentini detto l’Arrigoni. Nella fiancata sinistra, invece, si può ammirare il Monumento a Pio VI, opera di Antonio Trentanove (1739-1812), realizzato in stucco e risalente al 1784. Ai lati della statua, la Religione a sinistra e la Fortezza a destra, scoperte in occasione del restauro. Lo sguardo cade poi sul bellissimo Crocifisso ligneo del XV secolo, probabilmente realizzato dalla scuola altotirolese.
Contributo decisivo
È anche grazie al contributo della Fondazione Carim, da sempre impegnata nel recupero del patrimonio artistico riminese, che oggi è stata messa la parola fine a questo lungo lavoro di restauro e si ammirano capolavori di rara bellezza.
“Le motivazioni che ci hanno spinto a contribuire sono fondamentalmente due, spiega il presidente della Fondazione, Luciano Chicchi.
In primo luogo pensiamo che, dati i profondi cambiamenti subiti da Rimini negli ultimi anni, si sia perso il senso della sua identità. Recuperarne le radici ci aiuterà a riconoscerci in una piccola comunità quale siamo. Superiamo così il fatto di essere un popolo indistinto ma una comunità che pensa alla sua storia e si proietta nel futuro. In secondo luogo, siamo stanchi di quella immagine di Rimini che si è andata affermando a partire dagli anni ’80 come ’divertimentificio’. Questo è solo un lato della nostra città e forse marginale: c’è tutto un mondo di estrema vitalità che fatica ad esprimersi e che noi vogliamo affermare, portando alla luce le sue opere d’arte”.
L’impegno della Fondazione è in un contesto di continuità, che ha reso possibile – tra gli altri – il restauro del Tempio Malatestiano, i lavori per la Domus del Chirurgo e si proietta nel futuro con l’inaugurazione (il 13 marzo prossimo) al romano Museo Barbarici di una mostra sul Trecento riminese.
Romina Balducci
Le fondamenta storiche
Forse non tutti i riminesi sanno che la chiesa chiamata di S. Rita in onore della santa la cui statua è conservata all’interno, ha origini romaniche. Venne intitolata a San Marino, il pastore dalmata che a si fermò a Rimini prima di ritirarsi sul monte Titano. In quell’occasione, San Marino venne battezzato da San Gaudenzo. Evidenti le tracce del culto di San Marino, infatti, ritrovate all’interno della chiesa. Tra queste, le 4 tele dell’abside, opera di Giorgio Picchi, che narrano episodi della vita del Santo. Il materiale stesso in cui la chiesa era costruita, pietre di S. Marino, era stato usato per rendere omaggio al santo. Nel 1464, la chiesa venne donata ai Monaci Regolari Lateranensi che le diedero una struttura molto simile a quella attuale. I Lateranensi, infatti, donarono profondità all’abside e vi aggiunsero quegli affreschi del Cesi e del Picchi oggi recuperati dal restauro. Furono anche aggiunte tre cappelle sul lato destro, oggi non più visibili perché demolite nel 1918. I soffitti, a quel tempo erano bianchi: vennero dipinti solo nel Seicento. I monaci Lateranensi occuparono la chiesa di piazza Gramsci fino al 1797, anno dell’occupazione da parte delle truppe napoleoniche. Nel 1807, diventa parrocchia di San Bartolomeo (la chiesa di San Bartolomeo era stata demolita dai francesi). I soffitti vennero nuovamente affrescati alla fine dell’Ottocento, per poi essere ripresi, nel dopoguerra dal Valentini, che diede loro un nuovo assetto.
“La chiesa è come un corpo: reca addosso i caratteri di chi l’ha concepita e i segni di ciò che l’hanno colpita” afferma il dottor Francesco Baldi, architetto curatore del restauro. E di traumi, questa chiesa, ne ha subiti tanti, purtroppo. L’aspetto odierno, infatti, reca impressi i segni dell’occupazione delle truppe napoleoniche, quelli dei 3 terremoti che si sono succeduti nel corso di 3 secoli (1672, 1786 e 1915), i segni lasciati dalla seconda guerra mondiale, soprattutto nel 1944, e segni sono stati lasciati anche da interventi di ripristino a dir poco discutibili.
“Il grave impatto degli eventi storici sulla chiesa dei Santi Bartolomeo e Marino ha reso necessario lavori di recupero molto faticosi”, che hanno quindi interessato, a vari livelli, l’altare maggiore, gli affreschi, le pareti, il soffitto.