Quarantotto anni al potere, otto Presidenti, due guerre mondiali. La figura di J.Edgar Hoover, temutissimo e potentissimo capo dell’FBI, ha sicuramente contraddistinto la storia d’America dal 1919 (i suoi esordi come giovane investigatore) al 1972 (anno della sua morte). Un uomo “al comando” capace di attirare a se consensi ed ire, senza paura di finire con i piedi in vischiose paludi quando si trattava di indagare sugli scheletri nell’armadio dei Presidenti o delle figure di spicco della vita civile del paese.
Ad Hoover ci si accosta ora Clint Eastwood, l’uomo che non sbaglia un colpo (cinematografico), con il film J.Edgar, scritto da Dustin Lance Black (sua la sceneggiatura di Milk premiata con l’Oscar) ed il ritratto (ben impostato da un ottimo Leonardo Di Caprio) che emerge è quanto mai appassionante. Non solo la figura di un uomo, ma di un paese “controllato” da Hoover, nemico giurato dei comunisti e di “reazionari” come di Martin Luther King, affamato di successo al punto di prendersi il merito di operazioni altrui, sempre affiancato dalla fedele segretaria (Naomi Watts), dal fidato Clyde Tolson (Artie Hammer), collega a cui era legatissimo e controllato a vista dalla rigorosa madre (Judi Dench). Ma oltre il privato c’è il pubblico ed ecco che la storia degli Stati Uniti si incrocia inevitabilmente con la scalata al successo dell’uomo, capace di sfruttare a suo favore il drammatico e tragico rapimento del piccolo figlio di Lindbergh con il rapitore assicurato alla giustizia, di cavalcare l’ondata di successo di cinema e fumetti, direzionando i gusti del pubblico. Dalla fine della guerra fino a Nixon, Hoover è l’uomo chiave di un pezzo consistente della storia USA tra luci ed ombre.