Giornalista, regista, autore, saggista. Ugo Gregoretti: ha contribuito, e continua a farlo, alla storia della televisione e dello spettacolo italiano. Il Premio Ilaria Alpi di Riccione, dedicato al giornalismo televisivo d’inchiesta, ha assegnato il riconoscimento 2009 proprio a Gregoretti.
Gli inizi dell’avventura…
“Fui assunto in Rai, il primo dicembre del ’53 fortissimamente raccomandato. Addirittura in un periodo in cui c’era il blocco delle assunzioni. Il direttore generale Salvino Sernesi mi mise nella sua segreteria, penso per nascondermi perché non ero molto presentabile: avevo 22 anni, ma ne dimostravo 18 e vestivo alla caprese.
Sernesi era l’uomo che aveva ricostruito l’azienda. Sapendo che avevo una vena ironica mi mise alla stesura della sua corrispondenza.
La tv era sperimentale o almeno lo fu fino al 1° gennaio del ’54, quando iniziò la programmazione ufficiale. Ecco perché dico che televisivamente e anagraficamente ho un mese di più della televisione.
Quando Sernesi andò via per ragioni politiche, non volle piegarsi ai voleri governativi, ne approfittai per chiedere di essere spostato alla redazione del telegiornale. In quel primo anno, infatti, avevo maturato il desiderio di diventare giornalista televisivo.
La nuova direzione si liberò di me in 24 ore e raggiunsi la redazione del Tg ed approfondimenti allora diretta da Vittorio Veltroni, padre di Walter, grande telecronista, un vero maestro.
Era il 1955. Mi affacciai in una saletta e vidi uno strano tavolo con due grandi affari tondi, che sembravano degli “affetta-mortadella”. Domandai cosa fosse e sghignazzando mi risposero che era una moviola.
Cinque anni dopo, era il 1960, vinsi il Premio Italia, prestigioso riconoscimento per la migliore inchiesta televisiva dell’anno. Lo vinsi con il documentario “Sicilia del Gattopardo” che riscosse un successo internazionale e che ancor oggi è considerato uno dei capisaldi della ricerca giornalistica degli anni sessanta”.
Dal Premio Italia nel ’60 al Premio Giornalistico Televisivo Ilaria Alpi nel 2009, passando per innumerevoli riconoscimenti. Che significato ha per lei?
“È un premio che diversamente da altri mi commuove. Mi onora perché è il premio Ilaria Alpi e (refuso) rappresenta il massimo riconoscimento che la mia esperienza di giornalista televisivo ha ricevuto. Fino ad oggi, la mia valenza in questo ambito è stata messa un po’ in ombra dal marasma di tutte le mie professioni, così tante da portarmi a definirmi un autore multimeticcio di teatro, di opera, di cinema, di intrattenimento e spettacolo, di informazione.
Un premio così prestigioso, aggiunge un quoziente di soddisfazione e riconoscenza in più”.
Lei ha contribuito alla nascita del rèportage televisivo. In che stato si trova oggi il genere?
“È un genere meno frequentato rispetto ai miei tempi. Devo comunque dire che quei pochi che si vedono sono di notevole qualità. Forse i nostri in più avevano la ricerca ossessiva della correttezza. Dovevamo inventare il linguaggio della televisione italiana che aveva l’ambizione di competere con la BBC, la ORTF francese, le tv tedesche. C’era un confronto continuo, uno stimolo a fare le cose migliori.
Inoltre, noi abbiamo anche avuto maestri all’interno della Rai. Altrimenti in 5 anni non sarei arrivato al Premio Italia. Oggi non so quanto l’azienda e le altre emittenti puntino sulla qualità e stimolino gli autori a fare le cose nel modo migliore”.
Quindi non ci sono più maestri?
“Non so dire se ci siano maestri dentro l’azienda, vedo prodotti che sono in genere rispettabili però, soprattutto nei giovani, si percepisce la mancanza di modelli. Noi, invece, potevamo attingere conoscenze dai rèportage delle grandi televisioni pubbliche occidentali e dall’esperienza delle radiocronache. Coloro che ci hanno formati, i vari Veltroni e Di Schiena, erano grandi radiocronisti, persone che erano riuscite a comunicare immagini mentali semplicemente col suono, con la voce. Quando hanno avuto l’opportunità di governare i reporter visivi avevano quindi già una forte capacità di immagine.
Ricordiamo, ad esempio, le grandi radiocronache del Polesine. Lo stesso Veltroni padre, allora capo dei cronisti, tornò in campo con una non dimenticata trasmissione in diretta il giorno della restituzione di Trieste all’Italia. Fu sì una manifestazione di retorica, però di grande tensione e commozione”.
Si parla sempre più di tv “spazzatura”. Ritiene che ormai il mezzo ha dato tutto ciò che aveva? C’è chi dice che la tv sia arrivata al capolinea.
“La tv non è destinata a morire, anzi è destinata a durare fino alla fine del mondo così come la pittura, la scultura, l’architettura, il cinema, la radio.
Tutto ciò che può essere vitalizzato dalla creatività, dal talento, dalla padronanza del mestiere, ha un futuro inesauribile.
Possono nascere nuovi mezzi di comunicazione, nuovi strumenti, nuovi codici, ma il resto continuerà ad esistere. L’importante è che non si spenga il talento”.
Tv del dolore, reality…cosa pensa dei contenitori di oggi?
“Che si tratti di nuovi generi televisivi non vi è dubbio. Ognuno li giudica secondo il suo gusto, io li trovo ripugnanti. Tutto questo cinismo della comunicazione e dell’informazione, la mania dello scoop, sono prodotti della filosofia della società contemporanea di massa. Ma non è detto che debbano durare in eterno”.
È noto il suo modo di lavorare, spesso spregiudicato. Ci parli del suo metodo.
“Ho sempre avuto un temperamento ironico, una visione umoristica di ciò che accade tanto da potere essere paragonato alla lontana agli autori satirici.
La mia invenzione è stata quella di applicare alla ricerca e all’indagine giornalistica del rèportage uno spessore anche ironico, talvolta addirittura di comicità. Non si tratta di un metodo, ma di un’inclinazione al sorriso, forse anche alla presa in giro di cui il primo destinatario sono io.
Ne è esempio la mia autobiografia, uscita un paio di anni fa, in cui racconto la mia vita proprio da angolazioni satiriche”.
Che consigli dà ai giovani che vogliono fare i giornalisti?
“Innanzi tutto di autovalutarsi impietosamente, riflettere sulla fondatezza delle proprie aspirazioni, perché spesso si tratta di un semplice desiderio destinato a restare al nastro di partenza.
Una volta scelta la strada, bisogna percorrerla con la massima pazienza e una tenacia che non deve mai venire meno.
Ho visto colleghi non proprio ricchi di inventiva, riuscire ad affermarsi proprio grazie alla forza di volontà”.
Cosa le ha dato maggior soddisfazione?
“La cosa che amo di più è anche una delle meno conosciute. È un film fatto anni fa dopo una lunga astinenza cinematografica, ma che non è mai stato distribuito. Era un momento in cui i film si facevano e poi venivano abbandonati ad un destino di oblio. Il produttore guadagnava sul finanziamento del progetto e una volta fatto lo abbandonava.
La mia opera migliore è quindi un’orfana. Si tratta di Maggio Musicale del 1990”.
Fra le tante cose lei è anche stato il primo ad utilizzare la pubblicità come mezzo di divulgazione. Si tratta del primo spot Coop. Come è nata l’idea?
“Nelle Coop vi erano due correnti, l’una decisamente avversa alla pubblicità, per una preclusione ideologica che riguardava soprattutto i quadri più attempati. Per questi, Carosello era quasi blasfemo; l’altra componente, invece, giovanile, sosteneva che i mercati delle Coop erano luoghi in cui si vendevano prodotti e che per venderli meglio era necessario piegarsi all’invenzione capitalistica e borghese del Carosello. Cose che mi venivano raccontate… che avvenivano nel segreto dell’amministrazione…
Alla fine prevalse la maggioranza e la componente giovanile ottenne che la Coop si aprisse alla pubblicità pur mantenendo la propria identità e la propria matrice politica. Tanto è vero che affermo di essere stato l’inventore del carosello politico grazie ad una scelta tematica che riguardava i lavoratori con le loro storie e le loro fatiche.
Nel primo spot un etnomusicologo, interpretato da me, lavorava alla ricerca di canti di denuncia della tradizione popolare. Studiava foto d’epoca, di mondine, di scariolanti e tessitrici. Nella stanza entrava uno dei miei figli domandando cosa stessi facendo e io nella conclusione gli spiegavo agganciandomi all’attualità.
La prima serie ebbe così successo da proseguire negli anni. Come mi è capitato in diverse occasioni ho sfondato un muro per gli altri. Dalla falla aperta nella corazza anticarosellistica della Coop sono passati illustri maestri come Woody Allen e Peter Falk. E le Coop sono diventate esempio di buona produzione pubblicitaria”.
Nella sua carriera ha visto anche orrori, fra le varie cose ha raccontato la guerra del Vietnam. C’è una storia o un volto che le è rimasto particolarmente impresso?
“In realtà orrori ne ho visti pochi proprio perché la mia natura mi spinge verso tematiche non drammatiche, anche se non ho sempre giocato e scherzato. Non dimentichiamo ad esempio i film sulle lotte operaie.
C’è un volto che mi è rimasto impresso: una contadina vietnamita che racconta la strage fatta dagli americani nel villaggio My Lai di cui si parlò molto in Europa. Il tenente William Calley, poi processato per rappresaglia, penetrò nel villaggio con la sua squadra uccidendo uomini, donne, bambini, operai. Questa donna in un linguaggio molto elementare, con uno sguardo intensissimo e impietrito nel dolore, racconta la carneficina, mescolando i nomi… il signor Wu, il maiale del signor Wu… mettendo sullo stesso piano uomini ed animali, con una sensibilità contadina arcaica disarmante”.
Roberta Silverio