Sì, mi ricordo, adesso mi ricordo… Eravamo alla vigilia di Natale e a Rimini i negozi straripavano di dolciumi e giocattoli. A un certo punto arriva al Centro di ascolto in Caritas (allora aveva sede di fianco al Duomo) una donna con due bambini per chiedermi un piccolo aiuto. Cerco di accontentarla, quando il figlio piccolo (avrà avuto sei anni) mi si avvicina e, con una vocina triste, mi sussurra: “Non hai un giocattolino per me? …”
Gli si inumidiscono gli occhi a Piero nel ricordare quell’episodio di tanto tempo fa e anche la gola gli si stringe. E confesso, un po’ anche a me, ascoltando le parole di questo anziano signore, Pier Paolo Vannoni classe 1921, che nella sua lunga vita ne ha viste di tutti i colori, ma ancora si commuove ripensando a quel bimbetto implorante…
Lo siamo andati a trovare, oggi che compie 91 anni, nella sua casa in via Di Mezzo, circondato dai modellini di navi e aerei che ancora costruisce con le sue mani. Mani operose che non riescono a stare ferme. Mani robuste che parecchie volte l’hanno tolto dai guai con certi ospiti un po’ burrascosi della Caritas, dove da quasi trent’anni presta servizio come volontario. Ma anche mani generose che, durante la seconda guerra mondiale (era aviatore marconista in Croazia) non si facevano scrupolo di distribuire un po’ di cibo alle madri e ai bambini che ronzavano fuori dall’aeroporto, con il comandante che gli diceva che era vietato perché “quelli sono i nostri nemici” ma poi chiudeva un occhio anche lui… Nemici o non nemici, per Piero erano comunque creature affamate e forse furono proprio quei pochi alimenti sottratti dalla cucina, con la complicità di un cuoco originario di Cesena, che gli salvarono la vita dopo l’8 settembre. Fermato, con altri italiani, dai partigiani di Tito, fu riconosciuto da alcuni uomini, padri e mariti delle bocche che aveva sfamato “anche se non si poteva”. E così venne lasciato libero “anche se non si poteva”. Perché, nemici o non nemici, tra esseri umani si usa così.
30 chilometri
al giorno…
Rientrato a Rimini, prima di essere assunto in Ferrovia, Piero trova un lavoretto in Comune nell’ufficio incaricato della distribuzione delle tessere annonarie (le famose “tessere della fame”, istituite durante la guerra per assicurare un minimo di cibo quotidiano alla popolazione). Nel novembre del ’43 iniziano i bombardamenti sulla nostra città e così la famiglia Vannoni, con altri sfollati, trova rifugio a Camerano, nella campagna santarcangiolese. Di giorno Piero continua a lavorare a Rimini, la sera rientra in famiglia. Quindici chilometri all’andata, altrettanti al ritorno. Tutti percorsi rigorosamente a piedi. D’altra parte lui era uno sportivo (ancora oggi si vede) e poi c’era quella ragazza che abitava di fronte al rifugio e che si svegliava anche lei alle quattro del mattino quando Piero partiva. Un saluto scambiato in fretta, un sorriso, forse una simpatia innocente tra i due giovani: quanto bastava per affrontare il cammino di buona lena… Il ritorno, dopo una giornata di lavoro, pesava di più e Piero a volte cercava un passaggio di fortuna. Una volta si nascose nel rimorchio di un camion convinto che facesse tappa a Santarcangelo ma il camion quella volta si fermò solo a Faenza…
Dall’84 volontario
in Caritas
Piero dice che la generosità l’ha imparata in famiglia. Una generosità che non chiede i documenti prima di aiutare qualcuno che tende la mano. Il padre faceva il commerciante e, anche con sette figli, non se la passava male. Quando era ora di pranzo, spesso apriva la porta ai primi poveri di passaggio da quelle parti. Non li conosceva ma sapeva che avevano fame. E anche Piero la porta del cuore l’ha aperta a tanti. Come a quel ladruncolo che rubava il rame alla stazione e che lui, chiamato in tribunale per testimoniare, dichiarò di non riconoscere in quel ragazzino alla sbarra. Un po’ perché davvero non era sicuro che fosse lui il colpevole, un po’ perché non si può finire in galera per aver rubato per fame… O come a quei due giovani immigrati piuttosto esagitati che quella volta alla Caritas gli spiattellarono un coltello sotto il naso. Il maresciallo voleva arrestarli ma alla fine Piero lo convinse a lasciarli andare con un bel calcione nel sedere: in fondo erano solo delle povere vittime…
Di episodi del genere Piero ne avrebbe tanti da raccontare ma con un po’ di pudore mi raccomanda di evitare le celebrazioni. Ci proverò ma non è colpa mia se nel ’93 l’hanno fatto Cavaliere della Repubblica e nel 2004 è stato insignito della “Croce Pro-Ecclesia e Pontefice” rilasciata da Papa Giovani Paolo II (“una medaglia che mica tutti ce l’hanno…”)
Ma il riconoscimento a cui Piero tiene di più è quello che gli è venuto e gli viene dalle tante, tantissime persone che ha aiutato nei suoi quasi trent’anni trascorsi alla Caritas riminese.
Iniziò a fare il volontario nel 1984, dopo il pensionamento dalle Ferrovie, e l’iniziale impegno di qualche ora alla settimana si è trasformato poco alla volta in un lavoro a tempo pieno. Ancora oggi, seppur un po’ barcollante a causa della gamba malferma, lo si può trovare tre giorni alla settimana nel suo ufficio di Via IV Novembre. Ora si occupa della raccolta delle offerte e delle donazioni ma, in questo lungo periodo di tempo, i servizi Caritas li ha girati tutti: Centro di ascolto, segreteria, raccolta indumenti, coordinamento obiettori servizio civile… E quando torna a casa si rimette al lavoro. La moglie è ammalata e lui, con l’aiuto di una badante, prepara da mangiare per lei e per il figlio che è rimasto in famiglia (gli altri quattro vivono per conto proprio). Lasagne, melanzane, tutta roba fatta in casa. Sempre con quelle manone oggi un po’ tremule che mi salutano con tanto calore. Auguri Piero e cento di questi giorni!
Alberto Coloccioni