“Un sì che ha riacceso il cuore” è il titolo dell’incontro che si è svolto mercoledì 19 aprile in Sala Manzoni, con la giornalista Marina Ricci, che ha presentato il suo ultimo libro Govindo il dono di Madre Teresa.
Organizzato dal Centro Culturale Il Portico del Vasaio e dall’Associazione Famiglie per l’Accoglienza, l’incontro ha posto al centro l’esperienza della giornalista e della sua famiglia dal momento in cui Govindo, l’orfano di Calcutta gravemente disabile, cresciuto dalle suore di Madre Teresa, è entrato a far parte della loro vita.
A Marina Ricci, che era accompagnata dalla figlia maggiore Maria, abbiamo rivolto alcune domande.
Da dove comincia la storia che questa sera ci racconta?
“Dal 1996, quando sono partita di corsa per Calcutta, perchè Madre Teresa non stava bene. Le agenzie avevano battuto la notizia e il mio direttore, Enrico Mentana, mi aveva detto di partire immediatamente, di dare notizie sulla salute di Madre Teresa e raccontare la vita delle sue suore. Questo perché Mentana era rimasto molto colpito da un articolo di Luigi Accattoli, scritto dieci anni prima, sulla visita di Giovanni Paolo II nella casa dei moribondi di Calcutta. Accattoli aveva affermato che in quella casa anche il papa era rimasto in silenzio. Il direttore, allora, mi chiese di scoprire perché le case di Madre Teresa facevano restare in silenzio perfino un Papa”.
Come è stato l’impatto?
“Anzitutto Calcutta è stato un grande shock: più di cinque milioni di abitanti e la metà di questi vive per strada, sui marciapiedi; dormono, si lavano, mangiano, fanno i loro bisogni, muoiono, tutto per strada e non puoi non notarli. Ma intorno a loro la vita va avanti come se non esistessero. Poi ci sono le suore che sono uno shock nello shock. Sono le uniche che si fermano e si piegano su questa gente, se ne prendono cura”.
E poi, per lei, c’è stato un terzo shock.
“Sì. Non mi aspettavo che in tutto questo, una di loro mi chiedesse di adottare un bambino, uno di quelli che nessuno voleva. In realtà, appena arrivata, dopo aver visitato un orfanotrofio, ho chiamato mio marito e gli ho detto che avremmo potuto adottare un bambino. La risposta delle suore, però, non è stata quella che mi aspettavo: «Noi non abbiamo bisogno di te, abbiamo file di genitori». «Va bene – ho risposto – ho già altri 4 figli». «Hai 4 figli? Allora prendine uno di quelli che nessuno vuole». Immediatamente ho pensato che non se ne parlava nemmeno, ma i miei «no» non sono mai definitivi. Il visetto di Govindo, il bambino che sarebbe diventato mio figlio, era stato il primo che avevo visto entrando con il mio operatore nell’orfanotrofio di Shishu Baavhan: uno scheletrino steso per terra, in posizione fetale rigida, con braccia e gambe incrociate. Sollevava la testina e voleva essere preso in braccio”.
E cosa è successo?
“Ho avuto più paura di dire di no che di dire di sì. Che quel bambino fosse la carne di Gesù era evidente e il pensare di rifiutare Gesù era qualcosa che mi metteva molta paura. Non ero la persona migliore, ma era stato chiesto a me e quindi dovevo rispondere. La mia pediatra, quando successivamente ha letto la scheda medica arrivata dall’India insieme al certificato di adozione internazionale, mi ha dato della pazza e insieme a lei anche altre persone che pensavano all’arrivo di Govindo come a una destabilizzazione pericolosa per la mia famiglia. Questo ci ha mandato talmente in crisi che io e mio marito eravamo arrivati alla decisione di rinunciare. Una sera d’estate ho provato a dirlo alle mie figlie; Maria aveva 14 anni e Angela 12 e mi hanno letteralmente aggredita sintetizzando la loro protesta con una frase: «Lui ormai è nostro fratello»”.
E quindi?
“Questa loro grande commozione mi ha riportato alla realtà delle cose. L’istinto di chi è più giovane, meno avvelenato, intuisce il bene e lo sa subito abbracciare. Quando si diventa più scettici si indietreggia. Siamo tutti alla ricerca di qualcosa di più vero e bello; il problema è quando non lo riconosciamo e rispondiamo di no alle circostanze. Ma il Signore non smette mai di tenderci gli agguati per captare la nostra attenzione”.
Nel frattempo c’è stata la morte di Madre Teresa.
“Certo. Madre Teresa è morta nel 1997 e io sono stata rimandata in India e ho rivisto Govindo. Mi ha riconosciuto, era una cosa inimmaginabile per un bimbo così grave, nessuno se lo sarebbe aspettato: aveva custodito la mia immagine da un viaggio all’altro. Quando mi ha rivisto ha cominciato ad agitarsi a superare quella gabbia fisica che gli impediva di comunicare. C’era un bambino che si agitava sul seggiolone e io che mi commuovevo. Poi alzando lo sguardo ho visto che anche le suore piangevano, perchè quel bambino, contro ogni aspettativa, mi aveva riconosciuto e mi aveva amato: mi stava dicendo che mi amava”.
E così l’avventura è andata avanti.
“Sì, una vera e propria avventura che ha visto finalmente Govindo arrivare a Roma, a casa nostra, nel 1998. Mio figlio mi ha insegnato come siamo fatti: riusciva a gattonare quando incontrava un terapista che sapeva instaurare un rapporto affettivo con lui, altrimenti si rifiutava di collaborare. Lui doveva sentirsi amato, solo così riusciva a muoversi fisicamente. In fondo non siamo fatti così tutti quanti? Anche noi siamo questo gigantesco bisogno di essere amati, tanto è vero che quando non lo siamo diventiamo acidi e, anche fisicamente, ci rattrappiamo”.
Dunque è diventata la mamma di un quinto figlio.
“In un’icona armena dell’Annunciazione regalatami da mio marito, la Madonna non ha dipinto il Bambino Gesù sul grembo, ma sul cuore. Io sono rimasta incinta di Govindo concependolo nel cuore e questo può accadere anche agli uomini, non è una esperienza tipicamente femminile. Abbiamo tutti bisogno di essere amati e tutti possiamo concepire. Questa non è la storia di un’adozione, ma la possibilità di una vita: ci sono tanti concepimenti del cuore, tante storie che accadono e sono incredibili. Rappresentano un dono che attraversa tutta la nostra vita e ci strappa dalla polvere che ci pesa addosso”.
Cosa ha rappresentato Govindo per la sua famiglia?
“L’adozione di Govindo non è stata una catastrofe per i miei figli, come qualcuno aveva ipotizzato. Nel loro cuore è stato piantato un seme o un chiodo, comunque qualcosa che non potranno dimenticare. Prego perché Gesù sia sempre in agguato nella loro esistenza; attraversare la vita senza Gesù è quello che mi spaventa di più per loro. Govindo li ha educati a questo molto meglio di quanto avrei fatto io, li ha educati all’essenziale. Ci ha amati uno per uno nel nostro essere diversi, con una totalità che superava immensamente il suo handicap. Aveva una modalità diversa di rapporto con ciascuno. Il suo papà era il migliore, gli ha sempre buttato le braccia al collo, anche se la sera tornava a casa di cattivo umore. Lo amava per quello che era”.
E per lei?
“Ho aspettato molto di capire che cosa lui volesse fare con me. Non era in grado di compiere gesti autonomi, ma solo due volte questo è accaduto. Nella prima ero piegata su lui nel passeggino e parlavo con un altro, ma la sua manina si è alzata e ha voltato verso di sé il mio viso. Un’altra volta stavo piangendo per un lutto e lui ha sollevato la mano e mi ha accarezzato la guancia; un bambino con un grave handicap che per l’amore che porta per la sua mamma riesce finanche a sconfiggere il suo limite. Quando è morto a 18 anni nel novembre 2010, ci siamo detti che avremmo avuto tanto tempo «libero». Poi, sempre le mie figlie hanno chiesto: «Ma per fare cosa?». Stare con lui era più bello che stare a fare quello che ci pareva”.
Un sì che ha riacceso il cuore, quindi, come ci ha ricordato il titolo della serata?
“Assolutamente. La bellezza e la grandezza vengono fuori anche da situazione di dolore. Lo ha detto molto bene, con parole che non ho mai dimenticato, il vescovo martire del Congo Christophe Munzihirwa assassinato nel 1996: «Ci sono cose che si vedono bene solo con occhi che hanno pianto tanto». Se impari a guardarti intorno ogni cosa diventa un’ occasione, una possibilità. Govindo, con il suo indimenticabile amore, ha rappresentato per me e la mia famiglia questa inaspettata mossa del cuore”.
Rosanna Menghi