Proposto a Bolzano un insolito dittico contemporaneo, che si confronta con due fra le maggiori opere del grande repertorio ottocentesco
BOLZANO, 18 gennaio 2020 – Composto dall’ungherese Péter Eötvös nel 1976, anni in cui i vari Dramaturg ancora non si permettevano pesanti interventi di riscrittura sui più popolari titoli del repertorio (adesso è la regola, soprattutto nei paesi di lingua tedesca), Radames è concepito come parodia dell’allestimento di uno spettacolo operistico, di cui vengono messe in ridicolo – nell’arco di una mezz’ora – le assurdità. Il punto di partenza resta però lo spirito iconoclasta di quegli anni, che ha come bersaglio il teatro d’opera: un genere musicale liquidato, all’epoca, come espressione borghese e che si riteneva destinato a una morte imminente.
Per una riflessione in chiave comico-grottesca si è rivelata perfetta l’idea di scegliere la figura di Radamès come protagonista – è il personaggio tenorile per antonomasia, conosciuto pure da chi ha scarsa dimestichezza con il mondo della lirica – che diventa così epitome del genere operistico tout court. Mescolando, nel testo, più autori e lingue diverse per i personaggi, Eötvös ipotizza un tentativo di messinscena dell’Aida verdiana dove, per motivi di budget, si taglia sul numero degli interpreti. C’è un solo cantante, un controtenore, che presenta il vantaggio di poter dar voce sia a Radamès sia ad Aida, mentre attorno a lui si affollano ben tre registi (a quello d’opera se ne affianca uno teatrale e uno alle riprese video), dato che per loro – e qui lo sguardo del compositore ungherese si è rivelato davvero profetico – i soldi ci sono comunque.
Dopo quasi mezzo secolo, però oggi si guarda a Radames come a una testimonianza vintage, più che alle sue sollecitazioni satiriche: difficile, del resto, rivaleggiare con l’ampia letteratura fiorita attorno al malcostume teatrale, a partire da quel Teatro alla moda di Benedetto Marcello, che – dal settecento in poi – ha ispirato innumerevoli compositori, spesso con esiti esilaranti. Le considerazioni sui meccanismi economici alla base del teatro d’opera restano invece ancora valide e, oggi, la realtà ha persino superato la finzione scenica, in seguito allo strapotere di registi e drammaturghi.
Proposto in prima italiana per inaugurare la stagione d’opera della Fondazione Haydn di Bolzano e Trento, Radames è stato abbinato – con un’operazione in qualche modo speculare – a Lohengrin, uno dei titoli più noti di Salvatore Sciarrino (1983): anche in questo caso un lavoro di piccole proporzioni, della durata di quarantacinque minuti, rivisitazione dell’opera di Wagner a partire dal poeta francese Jules Laforgue. Qui il punto di vista è quello di Elsa, che combatte con i propri fantasmi: l’intera azione si svolge solo nella sua mente, mentre Lohengrin – il protagonista nominale – è avvertito solo come una dolorosa assenza.
Il regista Bruno Berger-Gorski ha allestito, con l’aiuto delle scene e dei costumi di Dirk Hofacker, un piccolo spazio all’interno del palco del Teatro Comunale di Bolzano: nel caso di Eötvös, riesce a dare la dimensione claustrofobica delle ristrettezze economiche, tanto più se confrontata con la grandiosità che pretenderebbe un’opera come Aida; in Lohengrin, invece, è una spartana stanza da ospedale psichiatrico a fare da cornice ai deliri di Elsa.
Tuttavia, a parte certe suggestioni visuali, la vera liaison des scènes tra i due lavori è rappresentata dagli interpreti, in particolare dal controtenore Rafał Tomkiewicz. Vessato in Radames dai tre registi che gli danno indicazioni del tutto contrastanti (alla fine morirà), nella seconda parte si trasforma in un Lohengrin mummificato, che non proferisce parola: totale negazione dell’eroe. Nei panni di Elsa – che non deve cantare, ma limitarsi a una suggestiva recitazione intonata – il soprano Céline Steudler: brava, intensa ed espressiva. Nella prima parte, invece, interpretava la petulante regista d’opera che dà indicazioni in italiano, avvalendosi solo di vocaboli estrapolati dal lessico musicale. Efficaci in scena e vocalmente sicuri anche il tenore Alexander Kaimbacher, che si esprimeva in tedesco, mentre il basso Javid Samadov era l’isterico regista cinematografico, di lingua inglese. A loro si è aggiunto il baritono Salvador Pérez come direttore di scena. I tre sono poi diventati il piccolo coro maschile che contrappunta lo Sprechgesang di Elsa nell’opera di Sciarrino.
Yannis Pouspourikas ha diretto (accompagnandosi anche alla tastiera) i tre soli strumentisti a fiato impegnati nei fulminanti interventi di Eötvös; ha invece avuto un compito ben più impegnativo in Lohengrin, perché la musica di Sciarrino presenta una costruzione strumentale abbastanza complessa, che per essere valorizzata richiede pulizia di suono e precisione millimetrica: qualità che, ancora una volta, l’Orchestra Haydn ha dimostrato di possedere in larga misura.
Giulia Vannoni