Dai contributi presenti nel primo volume della Storia della Chiesa riminese Dalle origini all’anno Mille emerge il profilo di una comunità capace di radicarsi nel territorio con gradualità, ma in profondità, una comunità che, senza recidere i legami col passato, è tuttavia consapevole della nuova visione del mondo di cui è portatrice.
Quando nel III secolo si diffonde la predicazione cristiana, Rimini ha già una lunga storia, poiché era stata fondata come colonia romana nel 268 a. C., ma, come tutte le altre parti dell’impero, sta vivendo anni di grave crisi, che vedono il brusco ridimensionamento dell’economia, il calo della popolazione, il degrado ambientale, l’accentuarsi delle disuguaglianze sociali, la latitanza dei poteri pubblici.
A volte sono eventi traumatici che portano alla distruzione di interi quartieri, più spesso sono l’incuria e la povertà crescente a segnare il declino dell’edilizia e a corrompere un tessuto urbano che solo pochi decenni prima era stato compatto, organico e funzionale e aveva garantito un elevato livello di vita alla sua compagine sociale. Quando dopo l’incendio ad opera degli Alemanni, che nel 259 distrusse i quartieri settentrionali della città (tra cui anche la casa del chirurgo), si volle ricostruire una cinta muraria per arginare ulteriori aggressioni, furono utilizzati più di 50.000 metri cubi di vecchi mattoni. Tale era l’entità delle rovine edilizie disseminate nella città. E l’abitato si era ormai talmente ristretto da consentire che dentro la cerchia delle mura fossero inglobati molti orti. Soprattutto nella zona a Sud della città, intorno alla fossa Patara resa ormai insalubre dalla cattiva manutenzione della rete fognaria.
È questo il contesto in cui si diffonde nel Riminese il messaggio della predicazione cristiana. Il precoce radicamento di una comunità cristiana nel nostro territorio – precoce rispetto al resto dell’Italia – fu favorito dalla facilità delle comunicazioni terrestri, garantite dalla convergenza delle importanti vie consolari la Flaminia (che conduceva a Roma), l’Emilia (che conduceva a Piacenza) e la Popilia, (che conduceva ad Aquileia) e dalla presenza di un porto marittimo tradizionalmente aperto alle rotte levantine; non da ultimo dalla disponibilità della città ad accogliere gli apporti culturali più diversi.
Nel 313 la firma di Stemnio, il primo vescovo della città, compare negli atti del Sinodo che papa Melchiade convoca a Roma per ristabilire la concordia delle Chiese. Segno che la comunità cristiana di Rimini è già “organizzata” e gode di un certo rilievo.
Ma gli inizi non erano stati facili. La Chiesa riminese aveva dovuto affrontare le persecuzioni di Massimiano e di Diocleziano, che, all’interno di una capillare azione di riforma, nel tentativo di rafforzare l’autorità imperiale, tra il 303 e i primi mesi dl 304 aveva dato avvio a quella che fu la persecuzione più sistematica e più radicale che la Chiesa nascente dovette subire.
Testimoniano queste persecuzioni le storie dei martiri Facondino, Gioventino, Pellegrino e Felicita, le cui spoglie sono conservate nella Cappella delle reliquie all’interno del tempio Malatestiano. O quella della diciassettenne Innocenza che “affronta impavida le lusinghe intercalate da minacce che le rivolge l’imperatore e per non abiurare la propria fede va incontro alla morte per decapitazione”. Ma il fatto che le venga dedicato un tempietto in una zona centralissima, all’incrocio del cardo e del decumano, le due principali arterie della città di pianta romana, (in corrispondenza della odierna Piazza Tre Martiri) ci attesta l’importanza che la comunità cristiana, nonostante tutto, aveva già raggiunto.
Dopo l’editto di Costantino, che nel 313 concede libertà di culto, la comunità cristiana può uscire dalle catacombe e continuare il suo radicamento nella città.
Vengono utilizzati con nuovi significati i simboli della religione pagana, che, con la crisi della religione olimpica, erano ormai ridotti a meri ornamenti: il tridente, simbolo del dio del mare Poseidone, è assunto come emblema della Trinità, il grifone, con la doppia natura di aquila e di leone, diviene allegoria della dimensione umana e divina di Cristo, le foglie di palma stilizzate vengono usate per alludere alla vittoria di Cristo sul male e sulla morte…
Per iniziativa sia vescovile che laica sono costruiti – al di fuori delle case private, sedi delle prime riunioni – i luoghi di culto, che contribuiscono a modificare nel tempo anche lo spazio pubblico e abitativo, nonché il tracciato stradale. Come avviene per la cattedrale di Santa Colomba, che, benché costruita in una zona decentrata rispetto alle grandi arterie della città romana, diviene presto “un polo di gravitazione degli interessi civici, in grado di condizionare l’assetto urbanistico e d’uso di tutta la zona circostante, sia dal punto di vista itinerario che insediativo” favorendo il sorgere dell’ asse stradale piazza Malatesta-piazza Cavour-piazzetta Ducale-piazza Ferrari convergente verso il ponte di Tiberio; o per il monastero dei SS. Pietro e Paolo (poi S.Giuliano) :
Lungo le direttrici viarie dirette verso Rimini nascono i monasteri, a chiedere alle “mura spirituali”quella protezione che quasi mai le mura materiali garantivano: San Giuliano sulla via Emilia, San Gaudenzo sulla via Flaminia (all’altezza dell’attuale Palazzetto dello Sport), Santi Andrea, Donato e Giustina sulla via Montanara.
Le tombe, oltre che lungo le vie di accesso alla città, vengono poste all’interno della cinta muraria, vicino ai santi, in prossimità degli edifici che ne conservano le spoglie, “sovvertendo quei principi ideologici e giuridici che tradizionalmente avevano regolato gli ordinamenti cittadini del mondo classico con la netta distinzione che questi istituivano tra le pertinenze urbane e quelle extra urbane”, tra mondo dei vivi e mondo dei morti.
I luoghi di culto pagani sono progressivamente sacralizzati in senso cristiano. È il caso, per esempio, del santuario di Sant’Angelo in Salute (vicino a Gatteo) sorto nel luogo di un precedente tempio dedicato alla dea Salus o dei santuari di Zeus Pater che vengono cristianizzati con la dedica a Pietro.
Ma, ciò che è più importante, la comunità cristiana prende sul serio l’insegnamento evangelico di premura verso gli ultimi, la caratteristica delle comunità delle origini che più suscitava la gelosia dei pagani. L’imperatore Giuliano che tra il 360 e il 362 fa un ultimo sistematico tentativo di restaurare il paganesimo, scrivendo ad Arsacio, sommo sacerdote in Galazia, lamenta che l’abbandono della vecchia religione è dovuto al fatto che i cristiani danno prova di “filantropia verso gli stranieri, cura nel seppellire i morti, austerità di vita” e lo esorta ad avere attenzione ai poveri, perché
Il fatto che il Concilio del 359, convocato per condannare la dottrina di Ario, che negava la natura divina in Cristo, abbia avuto sede a Rimini, ci attesta che il dovere di ospitalità, a cui si riferisce Giuliano, era stato davvero onorato, se in città poterono trovare alloggio 400 vescovi e per un periodo non breve.
E testimonia anche il fatto che a Rimini esisteva già un edificio abbastanza grande da accogliere le sedute plenarie. Anche se le indagini archeologiche non ci aiutano ancora a stabilire con certezza se si trattasse del monastero di San Gaudenzio o della cattedrale di Santa Colomba.
Grazie alla lunga tradizione culturale sulla quale si è innestata, la comunità dei primi secoli ha una vivace coscienza di sé, tanto da pretendere voce in capitolo nella scelta dei suoi pastori e da porsi come interlocutrice diretta dei papi.
Una serie di lettere di papa Gregorio Magno ci informa che intorno al 590 era stato eletto Vescovo di Rimini un tale Ocleantino. Il papa che, non sappiamo per quale motivo, non gradisce la nomina, si rivolge direttamente “al duca Arsicino, al clero, all’ordine dei curiali e al popolo di Rimini”, per invitarli ad una scelta diversa. Da una successiva lettera sappiamo che la elezione era caduta su Castorio, che tuttavia si scontra subito con il monastero dei Santi Tommaso e Andrea (situato nei pressi dell’attuale Piazza Ferrari). Il popolo si rivolge allora direttamente a papa Gregorio, che scrive a Castorio esortandolo a non intromettersi nelle questioni riguardanti il monastero dei Santi Tommaso e Andrea e a nominare come abate del monastero “colui che l’intera comunità – per generale consenso – avrà reclamato in quanto degno per costumi e idoneo alla disciplina monastica”.
La medesima coscienza di sé, declinata come necessità di fedeltà alle proprie origini, fa nascere al suo interno una figura di santo come Arduino, che, alla fine del decimo secolo richiama tanto il clero secolare quanto quello regolare ad una maggiore austerità di costumi.
(2- continua)
Cinzia Montevecchi