Al Teatro dell’Opera di Roma Evgenij Onegin, riuscitissimo spettacolo del regista Robert Carsen affidato alla bacchetta di James Conlon
ROMA, 21 febbraio 2020 – Uno sguardo empatico e, allo stesso tempo, lucidamente spietato sulla gioventù. Che, in pieno ottocento, non appare poi così diversa da quella di oggi. Evgenij Onegin cattura l’ascoltatore e lo spinge a immedesimarsi nei suoi personaggi. Del resto, la musica di Čajkovskij riesce – con rapide pennellate – a scandagliare in profondità l’animo dei quattro giovani che stanno per affacciarsi alla vita adulta: due coppie potenziali che, invece, per i limiti di carattere e l’incapacità di valutare le conseguenze dei loro comportamenti, non si formeranno mai.
L’opera più nota del compositore, tratta nel 1879 dall’omonimo romanzo in versi di Puškin, è andata in scena al Teatro dell’Opera di Roma in un vecchio allestimento proveniente da New York, mai visto in Italia (e nemmeno in Europa), realizzato da Robert Carsen, quando ancora non era un’icona indiscussa della regia operistica. Uno spettacolo molto sobrio, dalla cornice scenica elegante e spoglia – capace di suggerire ed evocare assai più che descrivere – di Michael Levine, autore anche dei costumi d’ispirazione ottocentesca, e benissimo illuminato grazie alle eloquenti luci di Jean Kalman.
L’inizio si salda con la fine, così il sipario si apre su Taťjana, seduta in una poltrona, dopo che ha respinto definitivamente l’uomo che amava. Molto efficace il passaggio fra secondo e terzo atto: Onegin è inginocchiato per accarezzare il cadavere di Lenskij, appena ucciso da lui in duello, poi – senza soluzione di continuità – viene vestito e catapultato alla festa in casa del principe Gremin. È un modo inequivocabile per tratteggiare le caratteristiche di un personaggio che – si tratti di giovanile presunzione o, più probabilmente, di tedio – commette tragici errori di cui finirà per portare il peso in modo irreversibile.
Molto ben corrisposto dagli strumentisti romani, James Conlon è stato il protagonista di un’esecuzione senza quei tagli che spesso snaturano la partitura. Il direttore non si è mai fatto prendere dall’enfasi e ha dosato con equilibrio le dinamiche orchestrali, valorizzando quell’eleganza formale di Čajkovskij che sembra guardare al modello mozartiano. Ha cesellato sonorità dove era evidente la ricchezza dei temi musicali, senza che gli intenti analitici avessero mai il sopravvento sulla meravigliosa compattezza drammatica dell’opera e la sua cantabilità. Ed è riuscito ad assecondare molto bene gli interpreti: tutti verosimili sul piano anagrafico.
Il soprano Maria Bayanchina è stata un’espressiva e intensa Taťjana, a suo agio soprattutto nelle vesti di adolescente, che scopre le pene d’amore, ancor più che nel drammatico duetto conclusivo con Onegin. Pressoché perfetta sul piano vocale la bravissima Yulia Matochkina, dal timbro autenticamente mezzosopranile e dalla emissione omogenea: la sua Oľga, priva di qualsiasi consapevolezza, è un misto d’incoscienza ed egoistica avidità (era sufficiente guardarla mentre s’ingozzava di cibo). Ottime professioniste anche le due donne adulte, capaci di trasmettere l’affettuoso distacco che si prova nel ripensare alla propria gioventù, che è poi l’angolatura scelta da Čajkovskij e da Carsen: il mezzosoprano Irida Dragoti è stata una convincente madre delle due sorelle, anche se un po’ povera di volume, il mezzosoprano Anna Viktorova, una balia davvero materna e sempre complice di Taťjana. Sul versante maschile si è imposto il tenore Saimir Pirgu. Il suo Lenskij è proprio come lo si immagina: impulsivo, innamorato e, nella splendida aria che precede il duello, malinconico ma dignitoso, elegiaco però trattenuto. Un Gremin di lusso è stato John Relyea: sempre ben timbrato pure negli affondi più gravi, robusto nell’emissione eppure sfumato nel fraseggio, plasma un uomo maturo ma ancora lontano dalla vecchiaia, capace di un amore non solo spirituale. Degni di nota anche i comprimari: il tenore Andrea Giovannini, penetrante e cesellato nelle vesti di un Triquet che non scade mai nel macchiettistico, e molto sicuro il baritono Andrii Ganchuk come inflessibile padrino di duello. Paradossalmente l’interprete più debole era proprio Onegin, anche se di fatto in quest’opera è un protagonista solo nominale: il baritono Markus Werba è apparso purtroppo sottodimensionato vocalmente e costretto in più occasioni a forzare, con il risultato di stimbrarsi. Un vero peccato: così, le carenze di colore e volume non fanno emergere la tormentata psicologia e le molteplici sfaccettature di un personaggio cui Čajkovskij ha impresso notevole complessità.
Anche il coro dell’Opera, preparato come sempre da Roberto Gabbiani, è stato all’altezza della situazione, pure nei movimenti scenici: dall’uso delle scope per allontanare le foglie ai due sontuosi balli. C’erano insomma tutti gli elementi per una di quelle serate dense di emozioni e che restano piacevolmente impresse nella memoria.
Giulia Vannoni