Home Vita della chiesa Giovani e lavoro. La speranza nella precarietà

Giovani e lavoro. La speranza nella precarietà

Qual è la speranza per i giovani in Italia? Rispondere a questa domanda non è mai stato più difficile. Tremano le voci, brillano di incertezza gli occhi dei riminesi interrogati dalla Diocesi nei giorni scorsi. “Trovare un lavoro”, rispondono alcuni, “scappare” ipotizzano altri. Per molti la speranza non c’è, per qualcuno “è l’ultima a morire”. Del resto, come si può essere ottimisti di fronte alla crisi del nostro tempo, ai giornali e alle televisioni che ci raccontano di una disoccupazione giovanile “stabile” sì, ma stabile al 42,7%?
Viene quasi da chiedersi a chi fosse rivolta, nel paese dei disoccupati, la festa dei lavoratori di quest’anno. Ma chi la scorsa settimana è stato alla Veglia del 1°Maggio, nella Chiesa di Santa Maria Annunziata, forse un senso a questo giorno è riuscito a darlo.
Giovani che hanno accolto l’invito del Vescovo a lottare, “non contro, ma pro” di fronte alla tragedia della crisi, uniti dalla volontà di credere ancora nel futuro, rincuorati dalla vicinanza della Pasqua appena celebrata.

Come Maicol e Alice, precari che stanno per sposarsi. Incredibile vero? Lui, 29enne di Misano Adriatico, si divide dall’età di 16 anni tra il lavoro stagionale e quello di educatore. Oggi ha un contratto a tempo determinato con l’associazione Sergio Zavatta Onlus, ma finora questo non è bastato a smettere i panni del “bamboccione”, come lui stesso si definisce, e ad abbandonare la casa dei genitori.
Lei, gambettolese di 27 anni, tira avanti tra lavori occasionali o a progetto, durati finora non più di un anno ciascuno. Ad agosto scadrà il suo ultimo contratto, quello con il centro educativo per stranieri della Caritas, presso il quale è coordinatrice. Da quando si sono conosciuti, ai tempi della scuola, niente di definitivo nelle loro vite. A parte il loro amore, cresciuto oltre la crisi e i quotidiani affanni, tuttora inscalfibile dallo scetticismo di chi, al loro posto, mai oserebbe andare all’altare. Maicol e Alice hanno deciso di non cedere al ricatto dei tempi, di non assecondare un’economia che rende tutti più poveri, ma anche più soli. “Nel matrimonio saremo in due, magari in tre. Affronteremo al meglio le battaglie perché saremo insieme”, spiega Alice. “Il nostro non è un affidamento cieco, ma una scelta di stabilità contro la precarietà. Lo diceva anche Gandhi: sii tu stesso il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”.

Anche il professore di Valerio, 28enne di San Mauro Pascoli, si era mostrato scettico di fronte a quella sua strampalata idea di fondare una cooperativa. Come fai a mettere in piedi dal nulla un progetto del genere? Gli aveva detto. Eppure Valerio era sicuro di farcela. “Per tre ragioni – aveva risposto allora al professore – perché di fronte a me ho un maestro, un esempio da seguire. Perché ho esperienza, e perché ho degli amici nei quali ogni giorno sperimento l’abbraccio di Cristo”. È grazie a queste ragioni, e alla caparbietà di Valerio, se oggi esiste la cooperativa Amici di Gigi, che accoglie e sostiene i ragazzi disabili nello studio e nell’inserimento al lavoro. La crisi si fa sentire, e Valerio ammette di non assumere personale da un po’, ma a chi vuole è offerta comunque la possibilità di dare un contributo. “Anche se non possiamo pagarle, teniamo con noi le persone che vogliono darsi da fare”, racconta. “Credo che lavorare qualche ora al giorno, pur senza uno stipendio, rende più proficuo il tempo che resta. E poi in questo modo possiamo almeno sostenerle nelle loro fatiche e nella ricerca di un’occupazione”.

Formarsi, intraprendere, cooperare: in una parola, gettare le reti. Sono un po’ come i pescatori del Vangelo secondo Luca, i giovani di oggi. Giorni interi spesi a cercare un lavoro per poi ritrovarsi con delle reti vuote. Ma come i pescatori, istruiti da Gesù, riuscirono a riempire le loro barche, così i neolaureati del nostro paese devono sapere che sperare è ancora possibile, che lavorare è possibile.
In molti già lo sanno. E tornando alla domanda iniziale, le risposte di alcuni riminesi possono sorprendere.
Puntando su me stesso la speranza non riesco a darmela – dice Alessandroma nel momento in cui mi tolgo questo peso e mi affido alla fede, mi rendo conto che le cose prendono una strada giusta. Nel tempo, riguardando a quei fallimenti da cui pensavo non sarei mai riuscito ad alzarmi, ho capito come invece mi abbiano portato a seguire il percorso migliore per me stesso. È un po’ come il gioco dei puntini: quando li unisci, comprendi il disegno”.

Quando finisci gli studi – racconta Stefano, 24 anni – ti rendi conto di avere davanti una miriade di possibilità, ma anche di essere inerme di fronte alle scelte. Lì inizia la vera speranza, quella di capire chi sei. Ho fatto concorsi in tutta Italia, fallendo a volte. Ma di fronte a partite che davo per perse, ho capito che esiste qualcosa di più grande che può rimescolare le carte da un momento all’altro. Oggi, nella sconfitta, so di poter dire: stavolta ho fallito, ma forse non ho fallito per un progetto più grande”.

Isabella Ciotti