Ma lei nelle sue Lettere parlava solo di dottrina cristiana o ci metteva anche della sua vita e dei suoi affetti? Insomma sono lettere del “pensiero” di San Paolo o della vita di Paolo?
Paolo trae un lungo sospiro. Ho paura di averlo offeso con una domanda così diretta – in fondo che diritto ho di entrare così nella sua intimità – ma nello stesso tempo sentivo che questa domanda dovevo farla anche per i nostri lettori. Lo guardo al mio fianco, questo uomo non tanto alto, dal volto un po’ abbronzato e pieno di rughe dovute alle fatiche, alle notti insonni passate a pregare e, forse dovute anche ad un carattere non facile da domare. Tarda a rispondere. Il suo sguardo vaga per il panorama dell’Appia Antica, la “regina viarum” come la chiamavano i romani, perché collegava Roma con il Sud d’Italia e di lì con l’Oriente.
“Quando arrivai a Roma venni proprio di qua, fino a porta Capena (oggi san Sebastiano). Avevo un tumulto di pensieri. Ero preparato alla magnificenza dell’Urbe imperiale, ma non immaginavo fosse così imponente. Il viaggio era stato come al solito rocambolesco (Atti 28): un naufragio a Malta, una sosta a Siracusa, poi avanti fino a Pozzuoli il grande porto commerciale di Roma scalo di tutto il traffico marittimo tra l’Oriente e Roma. Io ero sbalordito, seriamente pensavo a come avrei fatto e soprattutto a come aveva fatto Pietro ad affrontare tutta quella grandiosità. Camminavo scortato dalla guarnigione e sentivo che il Vangelo che portavo dentro di me era così semplice e bello, ma anche povero… Mi confortò molto trovare a circa 43 miglia da Roma in un piccolo centro vicino all’attuale Latina, Forum Appii una delegazione dei cristiani di Roma (Atti 28,14-15). E poi ancora ne incontrai altri a Tres Tabernae, (oggi c’è un grande Motel). Entrai a Roma da prigioniero ma confortato dalla presenza di fratelli e sorelle di cui neppure (tranne pochissimi) avevo mai sentito il nome. Era il Signore che mi aveva mandato quei fratelli, per dirmi come il Vangelo mi aveva già preceduto, e per farmi capire che la forza del vangelo non è il fatto che esso sia convincente dal punto di vista intellettuale, ma che esso dona una forza nella vita concreta: il Vangelo è una potenza che si manifesta nelle relazioni perché scaturisce dall’atto di amore di Dio Padre che ci ha donato suo Figlio per la nostra salvezza”.
A questo punto Paolo si gira verso di me: “Le mie lettere non sono trattati di Teologia, anche se dovevo pur far capire in modo autorevole la nostra fede alla mia gente, esse nascevano quando capivo che ne avevano bisogno ed io ero lontano da loro. Me ne hanno dette di tutti i colori (sbotta divertito) hanno persino detto che io sarei stato il Lenin del cristianesimo, perché avrei organizzato il pensiero cristiano così come Lenin aveva tradotto in una rivoluzione ed in una dittatura il pensiero di Marx – forse chi l’ha scritto voleva farmi un complimento, ma quanto era lontano questo dalla mia vita! A volte ho scritto per nostalgia, a volte non ho potuto mascherare l’amarezza, altre volte la gioia, e sempre cercavo di sollevare, infondere coraggio, destare speranza… ogni volta che scrivevo mi ci voleva forza e coraggio”.
Proviamo allora a parlare di alcune delle sue Lettere, magari nell’ordine in cui le ha scritte. Dopo quella ai Tessalonicesi fu la volta delle Lettere ai Corinzi. Corinto è una città dove lei soggiornò a lungo sia dopo il secondo sia dopo il terzo viaggio missionario.
“Eh, lei mette subito il dito sulla piaga! – dice Paolo con spontaneità – Corinto fu una comunità che mi fece lavorare non poco! Anzitutto a voi sono giunte solo due delle mie lettere ma ne scrissi almeno quattro. Una prima ancora dell’attuale Prima Lettera ai Corinti (1Cor 5,9) ed un’altra assai dolorosa “con cuore angosciato” (2Cor 2,3-4.9) tra le due lettere che sono in vostro possesso. Queste due lettere si sono perdute, così ha voluto lo Spirito di Dio vero autore della Scrittura, e per me non c’è problema, anche se c’è il fondato dubbio che una parte di esse siano confluite dentro quelle che conoscete come Prima e Seconda Lettera ai Corinzi. Ma anche se solo leggete attentamente quelle due vi scorgerete tante fatiche, frammiste a delle gioie sincere”.
Le due Lettere ai Corinzi furono scritte tra il 53 ed il 56 d.C. entrambe per affrontare delle difficoltà dottrinali o morali di quelle comunità. Ma che razza di comunità cristiana c’era a Corinto?
“L’evangelizzazione di Corinto durò un periodo di oltre 18 mesi, dalla fine del 50 alla metà del 52. Secondo la mia consuetudine di operare nei grandi centri, volevo impiantare la fede cristiana in quel porto famoso e molto popolato. Di fatto riuscii a stabilirvi una forte comunità, soprattutto negli strati modesti della popolazione (1Cor 1,26-28), anche tra gli scaricatori e le prostitute del porto. Questa grande città era un centro di cultura greca, dove si affrontavano correnti di pensiero e di religione molto differenti tra loro, con un rilassamento dei costumi che la rendeva tristemente celebre. Pensi che il verbo greco korintithein “corinteggiare”, significava in tutto l’Impero “comportarsi da prostituta”. Il contatto della giovane fede cristiana con questa capitale del paganesimo pose ai neofiti numerosi e delicati problemi. Con le mie Lettere cercai di risolverli. Mentre nel corso del mio soggiorno di tre anni (54-57) a Efeso durante il terzo viaggio, alcune domande portate da una delegazione di Corinto (1Cor 16,17), a cui si aggiunsero le informazion ricevute da Apollo (1Cor 16,12) e della gente di Cloe (1Cor 1,11), mi spinsero a scrivere una lettera (1 Cor 5,7)”.
Quali punti affronta in questa sua Lettera?
“Essa contiene una serie di interventi rigorosi per aiutare quella comunità ad applicare l’insegnamento cristiano a diversi problemi concreti. Infatti la comunità di Corinto, relativamente numerosa, era agitata da contrasti. Ho criticato severamente l’esistenza di gruppi tanto divisi tra loro riaffermando il ruolo unico e fondamentale di Cristo e quello diverso e secondario del “predicatore”, di chiunque si trattasse, me compreso.
Non ho potuto evitare un tono polemico soprattutto rispetto alla sopravvalutazione della sapienza religiosa in genere: ciò portava i Corinzi a trascurare la sapienza della croce di Cristo. Affrontai pure questioni relative alla morale sessuale e familiare rispondendo a domande precise (7,1.25 e forse 8,1; 12,1). Istruii anche i Corinzi sui comportamenti da tenere riguardo alle consuetudini pagane del loro ambiente (per esempio: come usare le carni dei sacrifici offerti agli idoli…); raccomandai la disciplina e la vera unità di tutti i credenti; ripresi poi il tema centrale della risurrezione; e invitai a partecipare a una colletta in favore dei cristiani poveri di Gerusalemme. Poveri Corinzi! Erano una minoranza cristiana dispersa in una grande città greca di mare, ricca di commercio, incrocio di popolazioni diverse. Un clima diffuso di immoralità, idee e ideali pagani, un certo lusso… esercitavano una loro influenza sopra questa comunità formata da credenti per lo più poveri e di poco peso sociale (1,26). In realtà possedevano molti doni spirituali (1,4-5.12), ma il senso della misteriosa potenza di Dio si rivelava scarso (capitolo 2). Sopravvalutavano o sottovalutavano i doni dello Spirito (capitoli 12-14). Dovetti accusarli anche di celebrare la Cena del Signore (la Messa) senza vero amore fraterno (capitolo 11) e nutrendo sentimenti legati a false concezioni di libertà (6,12). Nel capitolo 13 poi misi tutto me stesso per dire che all’apice di tutto non c’è la bravura o la sapienza ma la carità, quell’Inno alla carità mi è davvero costato tanto!”.
E la seconda Lettera ai Corinzi? Forse non l’ascoltarono?
“Si tratta di una lettera con uno stile è più appassionato e polemico che nella lettera precedente. Questo il motivo: la mia autorità fu messa in discussione, il mio lavoro passato e le mie stesse intenzioni furono poste in cattiva luce da certi predicatori, attivi a Corinto dopo di me. Sarà stata gelosia o forse solo voglia di protagonismo! Di conseguenza, nella lettera dovetti difendermi e spiegare quali veramente erano stati il mio ruolo e la mia attività (2,7; 10,13), dichiarando tutto il mio affetto per questi credenti (6,1-13; 11,2.11). Non tralasciai però anche pressanti esortazioni a perdonare i colpevoli (2,5-11) e a mostrarsi perseveranti (6,1-2), e li invitai alla generosità verso i poveri (capitoli 8-9)”.
Insomma essere pastore di una comunità non è tutto rose e fiori neppure per San Paolo!
“Scherza? Proprio con i Corinzi imparai molto dell’arte di guidare una comunità. Imparai soprattutto che la prima carità è quella della verità e della correzione. L’amore ha sempre il volto della verità del vangelo. E questo con dolce fermezza, senza aver paura di essere contrastati. C’è una passione, proprio come quella di Gesù, che l’evangelizzatore non può scansare”.
(9– continua)
a cura di Guido Benzi