Pipa magica, bottone rotante, rocchetto magico. Pochi pezzi di legno bastavano un tempo a comporre originali giocattoli con i quali i bambini trascorrevano ore divertenti. Tutti rigorosamente in materiali naturali, spesso venivano chiamati con termini dialettali. Emilio Podeschi ne ha una vera e propria esposizione, interamente realizzati da lui nelle fredde ore dell’inverno quando, lasciato il lavoro dei campi, si dedica a sminuzzare legnetti e arrotondare palline.
«Squizzet» la pistola ad acqua; «Sciop» il fucile giocattolo: “tutti strumenti che si usavano soprattutto all’aria aperta– ricorda Podeschi – a differenza di oggi con i bambini che stanno ore ed ore chiusi in casa davanti al computer”.
Ma vi è una riscoperta di questo modo di divertirsi tanto che Podeschi, nella sua fattoria didattica «il Giuggiolo», in quel di Santarcangelo, dove ha la mostra, riceve molte visite e richieste soprattutto da parte delle scuole.
“I maestri chiedono di acquistare un certo gioco e ne ordinano uno per ciascun bambino o ragazzo per poi farli giocare tutti insieme all’aperto, in una sorta di recupero della memoria”.
La «pipa magica» ad esempio, era uno strumento a forma di pipa che faceva, soffiandoci dentro, librare in aria una pallina che seguiva gli spostamenti del giocatore che doveva essere abile e controllare l’intensità del soffio e muoversi lentamente. I più piccoli restavano a guardare pieni di stupore.
La descrizione di molti giochi come questo è illustrata nel testo di Carlo Lotti «Quando si giocava a far giocattoli» edito da La Pieve. Già nella presentazione del libro (fatta da Sandro Piscaglia) è contenuta la testimonianza della cura che veniva rivolta alla costruzione dei giocattoli e degli strumenti musicali per i più piccini: “Se vuoi costruire un flauto con un ramo d’orniello non puoi prenderlo quando la linfa scorre lenta per il freddo, non vibrerebbe dolce: se lo incidi quando fiorisce di vita ne uscirebbe la biblica manna. Alcuni rami si sbucciano nel modo giusto solo in un breve periodo dell’anno”.
Altri tipi di strumenti che venivano costruiti erano il fischietto con l’osso di ciliegia, il flauto dalle sette voci, la trombetta… E come non ricordare la fionda costruita con canne e bastoni, usata fino a tempi più vicini a noi?
Alcuni giochi sono stati dismessi perché ritenuti pericolosi e questo è un segno dei tempi che con la sua cultura volta a proteggere maggiormente i più piccoli, ha dato un segno del progresso e ha tolto, insieme, quel modo un po’ sfrontato e istintivo di giocare, che se fa storcere il naso ad alcuni, rappresentava anche un modo per crescere, per misurarsi con il mondo esterno.
“Ricordiamo che in passato i bambini costruivano da soli i loro giocattoli facendosi aiutare da quello che vendeva le biciclette, dal sarto o da un familiare – racconta Grazia Bravetti Magnoni – le più caratteristiche erano le bambole delle bambine di campagna. Si prendeva il torsolo delle pannocchie per farne l’imbottitura, stoffa e erba per vestiti e capelli”.
E i giochi di gruppo all’aperto?
“C’era la settimana, il girotondo a scuola, il gioco dell’anello e arriva un bastimento carico di… Anche i bottoni erano molto usati per lo svago, spesso venivano rubati dai pantaloni che erano stesi ad asciugare. Uno dei giochi che più piaceva era la trottola ma per farsela fare bisognava andare dal falegname e veniva usata soprattutto in città dove la strada permetteva meglio la rotazione”.
Ore ed ore in strada con la trottola o a correre dietro al cerchio. Andando a scuola a piedi, per chilometri, si approfittava per fare giochi con le biglie o i tappi che venivano lasciati in posizioni studiate in una sorta di percorso di gioco.
“I bambini stavano molto insieme a differenza di oggi che stanno da soli davanti alla playstation – conclude Grazia – facevano anche grosse litigate e se un ragazzo non stava alle regole dettate dal gioco di gruppo poteva perdere le amicizie anche per lunghi periodi. Era un modo per imparare a ragionare, ascoltare, affrontare il piccolo mondo extrafamiliare e quindi cominciare a crescere”.
pagina a cura di Silvia Ambrosini