Ha salvato la vita a quasi mille ebrei mettendo a repentaglio la sua più e più volte. Come in quel viaggio di ritorno da Bastia Umbra, nel settembre del 1944, quando un aereo gli scaricò addosso diversi colpi di mitragliatore che schivò gettandosi in un fosso e nascondendosi tra la vegetazione. O come quando due truppe tedesche lo inseguirono invano mentre volava giù da un passo. Proprio per questo, lo scorso 23 settembre, Gino Bartali, è stato iscritto fra i “Giusti tra le Nazioni” allo Yad Vashem, il Sacrario della Memoria a Gerusalemme, insieme con altri italiani, tutti non ebrei, che ebbero il coraggio di dire di no alle barbarie naziste. Persone che hanno riscattato in parte l’onore dell’Italia fascista alleata dei tedeschi, segnata dalle leggi razziste e dalle persecuzioni. Uno scorcio della vita privata del grande campione del ciclismo che in pochi conoscevano “perché certe cose sono medaglie da portare nel regno dei cieli e non in quello degli uomini” diceva “Ginaccio” al figlio Andrea. Che sabato scorso, sul sagrato del Tempio Malatestiano, all’interno del Festival Francescano, intervistato da Simona Mulazzani, ha raccontato di quelle tappe che avevano come traguardo salvare la vita a persone innocenti.
“Tutto è iniziato quando l’arcivescovo Elia Angelo Dalla Costa (anche lui “Giusto tra le Nazioni”, ndr) lo chiamò in Curia, a Firenze. Lui e il babbo erano molto amici, avevano fatto parte dell’Azione Cattolica, lui aveva sposato i miei genitori e lui mi aveva dato i sacramenti – racconta Andrea – ebbene l’arcivescovo disse al babbo: «Gino, bisogna salvare più ebrei possibili. Noi abbiamo dei documenti che devono arrivare a Genova, ma ci manca un postino che li trasporti. Ho pensato a te, ma prima di darmi una risposta sappi che se ti fermano e ti trovano con le carte, rischi di essere fucilato». Il babbo ci pensò un attimo perché io ero piccino e mia mamma sarebbe rimasta sola, ma dopo un paio di minuti gli disse di sì”.
Bartali prendeva i documenti, li nascondeva sotto il sellino e poi partiva. Testa bassa e pedalare.
“Faceva quasi 500 chilometri in due giorni, viaggiando anche di notte perché non aveva paura di nulla. Prima di arrivare in Liguria si fermava alla Certosa di Lucca dove i certosini gli davano altri documenti e anche tanti soldi che poi lui riportava a Firenze. Se gli capitò di essere fermato? Tante volte, lui rispondeva sempre che si stava allenando perché prima o poi la guerra sarebbe finita e lui deve ripresentarsi in forma. La fortuna, infatti, è che all’epoca il babbo era già conosciuto per le sue vittorie”.
Un giorno Dalla Costa lo chiamò in Curia, a Firenze, e gli disse che c’era da pedalare verso altre mete.
“In un primo momento iniziò la spola tra Firenze ed Assisi, 160 chilometri che percorreva in un giorno, partiva la mattina all’alba e rincasava la sera tardi e la mamma finché non sentiva la porta aprirsi stava sempre con l’ansia di non vederlo tornare. Successivamente andò a Pescasseroli dove c’era un religioso soprannominato il frate dei contrabbandieri che gli consegnava altri documenti e lui pedalava, pedalava e quando si sedeva a tavola o veniva a darmi la buonanotte era la persona più felice della terra perché sapeva di aver aiutato tanti innocenti a rifarsi una vita: nuovi documenti, nuove identità, nuove esistenze”.
C’è un altro traguardo volante in quei tre anni tra il 1943 e il 1946.
“Quello di Terontola – sottolinea Andrea – Terontola è una piccola frazione nel comune di Cortona, che in quell’epoca ebbe un ruolo importante perché in pratica era lo snodo tra i due mari e in un certo senso univa il nord e il sud. Da lì partivano diversi treni verso l’Europa. Mio padre cosa faceva in accordo con gli abitanti del posto e i religiosi: praticamente si metteva in cima a una collina e aspettava il cenno di qualche compagno nei pressi della stazione, a quel punto saliva in sella ed entrava in paese. La gente lo circondava e le sentinelle naziste che stavano a guardia dei convogli andavano a vedere che cosa fosse quell’assembramento di persone, quando si accorgevano che era mio babbo tornavano sui propri passi. Nel frattempo, però, tanti ebrei erano stati fatti salire sui treni e partivano verso una nuova vita”.
Durante il suo intervento, Andrea Bartali, ha svelato anche particolari molto teneri del suo rapporto con il padre.
“Molto spesso quando mi presentano dicendo che sono figlio di Bartali, tutti mi fanno i complimenti e io rispondo sempre che non ho fatto nulla, che è stato il babbo a fare oltre 700mila chilometri. Molti dei quali gli ho rifatti con lui, ma in macchina. Ogni volta mi diceva: guarda questa curva, la si prende così, poi qui si cambia e si va via. Il babbo amava questo sport più della sua vita. Come adorava la sua bici con la quale parlava spesso, come se fosse un cristiano. Tanto che la mamma spesso gli diceva: sembra che vuoi più bene a lei che a me. Lui la rincuorava, ma poi, appena lei se ne andava, guardava la bici e diceva: sai che non è vero, che voglio più bene a te”.
Rimini è terra di corridori. A pochi chilometri dal Tempio Malatestiano è nato uno dei più grandi scalatori del nostro tempo, Marco Pantani. Andrea, nella sua chiacchierata, ha parlato anche di lui.
“Il babbo diceva sempre che era un grandissimo campione e quando lo hanno trovato positivo ripeteva: se, e dico se, avesse sbagliato, che lo lascino stare. Chi nella sua vita non ha mai sbagliato?”.
Forse lui, il Giusto tra le Nazioni.
Francesco Barone