Per la Festa della Mamma non avrei potuto concedermi un regalo migliore. Mentre sono qui, a scrivere e cercare di riportare l’insieme di riflessioni e sensazioni scaturite dalla mia ultima intervista con Gina Ancora, direttrice dell’Unità Operativa di Terapia Intensiva Neonatale (TIN) dell’ospedale “Infermi”, il pensiero continua ad andare a quelle mamme speciali che tra le mura di questo reparto, combattono insieme ai loro piccoli. E alle donne che hanno trasformato un’esperienza di dolore in un percorso di sostegno alle famiglie che oggi temono per i loro cuccioli. Gina Ancora ci racconta tutto questo, e mentre avverto la sua emozione, capisco quanto sia prezioso per una neomamma e il suo bimbo, trovare oltre a un ottimo specialista, la passione e sensibilità di una dottoressa che non dimentica di essere, anche lei, mamma.
Lei ed il suo staff entrate in contatto con casi che talvolta appaiono irrisolvibili. Vuole raccontarcene qualcuno?
“Tutti i bambini ’piuma’ (nati prematuri e sotto il Kg, ndr) rimangono impressi: li vediamo sul palmo di una mano, esili, senza nemmeno la forza per piangere, e poi arrivano a sbocciare. L’età gestazionale più bassa alla quale un bimbo può sopravvivere sono le 23 settimane: in tal caso è riportata una sopravvivenza intorno a 2-3 bimbi ogni 10. Ultimamente ne abbiamo avuti anche 5 su 10, e li si vede fiorire. A volte i genitori non sanno neanche se riconoscerli perché hanno paura di attaccarsi e poi di perderli. Motivo per cui chiediamo ai genitori di bambini ex prematuri di essere di supporto”.
Quale la soddisfazione più grande?
“Vedere questi piccoli che arrivano a succhiare il latte dal seno. Abbiamo assistito al miracolo di un bimbo di 23 settimane che ci è riuscito e ha proseguito per mesi, anche dopo la dimissione dall’ospedale”.
Ci sono i bimbi “piuma” e quelli che arrivano con malformazioni, infezioni, o altri problemi di tipo chirurgico…
“Sì, proprio di recente abbiamo ricoverato un bimbo che aveva una malformazione, un’ernia diaframmatica che comportava la mancanza della separazione tra il torace e l’addome. Sono bambini che fanno degli interventi e una rianimazione molto importanti. Anche in questo caso il piccolo, piano piano, grazie alla vicinanza dei genitori, è riuscito a prendere il latte direttamente dalla mamma”.
Sottolinea spesso l’importanza della vicinanza dei genitori. Vale anche nell’ambiente protetto del reparto?
“Sicuramente. Oltre a guarire la patologia o a permettere ai bambini di superare la prematurità, vogliamo soprattutto creare una situazione relazionale e familiare il più armonica possibile. Assistiamo a situazioni che mettono a dura prova chiunque: i bimbi, le famiglie, lo stesso personale a contatto con queste fatiche. Se si pensa solo a guarire il neonato e non si cura il contesto, la famiglia ne uscirà indebolita”.
In che modo?
“La costruzione della genitorialità passa attraverso il vedere davanti a sé il bambino del proprio immaginario, dei propri sogni, il bambino che tutti ci inducono a immaginare. Quando il bimbo è diverso – capita anche quando nasce un bambino di 2 Kg e 800 e la mamma già si sente in colpa – il primo rischio è che non ci si senta più in grado di fare i genitori. Proprio nel momento in cui, invece, devi dare di più. Il genitore facilmente delegherà al reparto. L’infermiere, come il medico, potrà sentirsi orgoglioso. Ma dopo? I genitori con questa sindrome da stress post traumatico svolgeranno il loro ruolo con meno competenze, meno gioia, e la crescita del bambino ne sarà fortemente influenzata, anche a distanza di anni con un maggior rischio di disturbi psichiatrici, problemi psicologici, forme di autismo, peggiori risultati scolastici. Ecco perché quando sento dire dalle mie infermiere «questi sono i nostri bambini» mi arrabbio moltissimo. Non bisogna sostituirsi, neanche nell’affetto”.
Potete contare su un’associazione di famiglie che hanno vissuto questi problemi, La prima coccola.
“È vero, sono persone fantastiche. Siamo in stretto contatto. Entrano in reparto per venire a parlare a intervalli regolari con i genitori seguiti, si mettono a disposizione. Due volte al mese, ad esempio, facciamo il gruppo braccio: i genitori del reparto si incontrano tra loro, con la psicologa, e arrivano anche i genitori della Prima coccola. Cerchiamo il più possibile di favorire un percorso di normalità e ogni volta che ci riusciamo, ogni nuovo protocollo del reparto viene sottoposto anche all’attenzione dell’associazione”.
Si è sempre occupata di neonatologia. Perché?
“È una esperienza sempre molto commovente per me. Anche nel neonato prematuro c’è una grandissima forza. È la forza del piccolo, la forza della fragilità. Se non la si guarda bene in faccia, rischia di essere sopraffatta. Se li si supporta senza andarli a soverchiare, questi bambini hanno una capacità di recupero miracolosa. C’è un fiorire di potenzialità che bisogna avere il tempo e la delicatezza di vedere. Ogni volta è un miracolo”.
Donna e con un ruolo di responsabilità: ha incontrato difficoltà?
“A mia volta l’essere madre mi ha dato una grande forza. Ho lavorato tanti anni a Bologna, avevo una bimba piccola, ero da sola la notte e quando mi chiamavano in emergenza in ospedale era per me un’organizzazione importante. Ho imparato questo: nella difficoltà si trovano gli aiuti. Avere bisogno vuol dire creare delle aperture verso gli altri e scoprire persone meravigliose. E io nello svolgere il ruolo di mamma e medico, ho sempre avuto bisogno di una grande rete intorno. Dalle amicizie alla baby sitter, al figlio della baby sitter, che all’occorrenza accompagnava mia figlia a scuola. Da soli non si va da nessuna parte, nella vita professionale come nel lavoro, anche nel rapporto con la mia èquipe”.
Quanti anni ha oggi sua figlia?
“15 e mezzo. Tutti i giorni, anche in quelli più frenetici, torno a casa a pranzo per mangiare con lei. Lei si organizza benissimo. L’altro giorno sono arrivata tardi, alle 15, ed è stata lei a cucinare. Ma l’idea di poterla almeno vedere al ritorno dalla scuola, per tenere in mano la situazione, l’ho sempre concretizzata”.
E il passaggio da Bologna a Rimini, invece, come è stato?
“La Città è stata molto accogliente. Qui si vive benissimo. Sicuramente Rimini è più a misura di famiglia. Ci si muove bene anche in bicicletta. È stato difficile trasferirsi per mia figlia che era in quarta elementare e aveva una fittissima rete amicale, ma l’ha subito ricostruita anche qui, tenendo gli amici a Bologna. E poi mi piace il mare e ho trovato delle persone qui in reparto fantastiche”.
Chi è Gina Ancora quando esce dall’ospedale?
“(ride) Se mi sta chiedendo gli hobby, ogni tanto ci provo, ma poi rimangono lì! Se fossi riuscita a coltivare i tanti interessi che ho avuto, adesso sarei una subacquea, avrei fatto vela, avrei tantissimi brevetti! E poi quando sono a casa sono con la mia famiglia, mi piace moltissimo leggere. Con mia figlia amiamo leggere i grandi classici come Emily Dickinson e Ungaretti”.
Sua figlia seguirà il suo percorso?
“Oggi studia al liceo linguistico. Ha sempre detto: «Mamma, guarda, chiedimi tutto, ma non di fare il medico. Tu sei sempre lì con quelle diapositive!». Poi, però, quando doveva scegliere la lingua straniera per il liceo, mi ha chiesto quale fosse più utile per Medicina, aggiungendo: «perché, sai mamma, vorrei tanto seguire le tue orme»”.
Neonatologia?
“No, sempre qualcosa a contatto con i bambini, ma più a livello psicologico. È ancora presto ma sembra che qualcosa ci sia…”.
Il gene dovrebbe esserci.
“Più che il gene, spero tanto di averle trasmesso la passione per gli altri. Il mondo va avanti per gli appassionati. In qualsiasi lavoro. Basta una risposta data in un modo piuttosto che in un altro, che può cambiare la vita di chi ti sta di fronte che a sua volta cambia un altro, e così via. Abbiamo la responsabilità di essere gentili, appassionati, attenti. Poi non sempre ci riusciamo. E non tutti hanno gli stessi strumenti perché in parte dai anche quello che hai ricevuto. Ma se hai ricevuto, un po’ bisogna anche ridare indietro”.
Alessandra Leardini