Luca (nome di fantasia) è un ragazzo molto intelligente… ma non si applica, direbbero i professori. No, qui è peggio. Luca non fa proprio nulla. Quando c’è il tema di italiano lascia il foglio in bianco, i compiti non li fa mai e rischia di dover ripetere la terza media. La bocciatura è dietro l’angolo e anche quando il pomeriggio va ai Get (Gruppi educativi territoriali) non si porta dietro libri né quaderni. Oltre che essere un problema per sé, rischia di diventarlo anche per gli altri ragazzi che lo vedono e anche loro vorrebbero non fare nulla.
“Allora gli abbiamo dato un quaderno e gli abbiamo detto: fai il tema che vuoi. Scrivi”, racconta Debora Natili, direttrice area scuola ed extra scuola della cooperativa Il Millepiedi.
Il quaderno si riempie di temi e racconti. Non perfetti, alcuni sgrammaticati, ma belli, fatti bene e che mostrano una buona capacità di scrivere, argomentare e raccontare.
“Quando abbiamo portato il quaderno al suo professore – continua Debora – all’inizio non credeva che fossero di Luca”.
Poi, assieme, gli educatori del Get e i professori di Luca trovano il modo di farlo partecipare alle attività scolastiche e alla fine Luca scrive un bel tema con la storia dei suoi cani. C’è pure il lieto fine: viene promosso. Un lieto fine un po’ amaro “Non scriveva mai temi liberi sulla sua famiglia perché quando la tua famiglia è sempre assente o hai grossi problemi con i genitori non hai voglia di raccontarlo. Bisogna trovare la chiave giusta. Non è facile, ma si può fare”.
I Gruppi educativi territoriali sono una realtà unica, esistono solo nel nostro territorio, e Debora, responsabile del servizio, lo dice con una punta di orgoglio. Perché la storia di Luca è una tra le tante storie positive che nascono ai Get. Questo non significa che siano tutte rose e fiori. Anzi, il lavoro degli educatori comporta non poche difficoltà, “ma alla fine le soddisfazioni ripagano della fatica”, aggiunge Mara Mondaini, educatrice.
Ma cosa sono i Get? Un doposcuola? Un centro diurno? Niente di tutto questo. E’ un servizio che ospita una trentina di ragazzi delle scuole elementari e medie aperto cinque pomeriggi a settimana per tre ore. La peculiarità è che di questi 30, due terzi sono segnalati dal servizio sociale territoriale – tutela minori e neuropsichiatria infantile – mentre i rimanenti posti sono aperti a tutti. In una parola: integrazione.
“Se passi casualmente un pomeriggio a vedere cosa combinano non ti accorgi delle differenze – dice Debora – Le categorizzazioni le fanno gli adulti. Per i ragazzi che partecipano è un gruppo e basta. Non c’è quello che viene perché è disabile, quello che ha difficoltà a integrarsi perché è straniero, quello che è qui perché ha la famiglia sfasciata, quello che semplicemente non vuole fare i compiti da solo, quello che non è bravo in matematica. Le differenze le conoscono gli educatori, perché conoscono i ragazzi, e basta”.
Ma cosa fanno i ragazzi in queste tre ore? “In parte fanno i compiti, ma non solo quello. Per noi lo studio è un mezzo per relazionarsi, per farli uscire fuori. I compiti non sono l’obiettivo. Cerchiamo di motivarli allo studio. Fargli capire che ognuno ha le proprie difficoltà. Il vero problema per noi è trovare il modo per coinvolgerli e spingerli a tornare, perché i ragazzi vengono liberamente e devono essere invogliati, soprattutto quando le famiglie sono poche presenti”.
E viene da pensare che Debora e tutti gli altri educatori dei Get (3 educatori per gruppo e un totale di 14 gruppi in tutta la provincia), il lavoro lo facciano bene perché i ragazzi tornano e portano gli amici ad allargare la famiglia dei Get.
“I ragazzi qui si sentono a loro agio. Dovresti venire a vederli un pomeriggio. C’è la ragazzina col velo, quello dalla pelle scura, magari il ragazzino sulla carrozzina o quello che cammina male o ha un piccolo ritardo mentale. Questa è la nostra normalità e tutti si sentono accettati e lavorano assieme e fanno gruppo. E’ il risultato più bello, quello che ripaga di tutti gli sforzi. Ogni fine anno facciamo la festa tutti assieme. Ci sono quasi 400 ragazzi e stanno tutti assieme a giocare. L’anno scorso c’è stata una gara di corsa e un gruppetto, senza che nessuno gli dicesse nulla, ha preso sulle spalle l’amico in carrozzella, che non cammina, per far partecipare anche lui. Alcune volte ho l’impressione che questi ragazzi potranno costruire un futuro migliore. Sono la vera integrazione”.
Aggiunge Mara: “La diversità se è gestita, spiegata, tutelata, è una grandissima ricchezza. I più piccoli non notano le differenze, i più grandi magari le hanno subite, ma basta metterli davanti alle cose che si dicono per offendere e ci si accorge che sono costruite sul niente. E poi la diversità è importante anche negli educatori: mostrare che anche noi sbagliamo, che non sappiamo fare tutto. L’importante è essere umili. Molti di questi ragazzi quando sentono un adulto scusarsi non credono alle proprie orecchie”.
Dicono di essere fortunate, Mara e Debora, perché possono permettersi di mostrare le loro debolezze, di essere nude davanti ai ragazzi, perché non devono giudicare, dare un voto e decidere se promuovere o bocciare, come fanno i professori, ma possono lavorare per creare una relazione stabile e duratura.
Il loro lavoro è come quello del giardiniere che pianta un albero di cui non vedrà la crescita. “Ho imparato la speranza – dice Mara – perché non sempre vedi i risultati del tuo lavoro. Anche se sono tanti i gesti che ti fanno capire che la direzione è giusta”.
Come la ragazzina che ha voluto portare a casa le candeline della torta del compleanno perché non aveva mai ricevuto una torta, o i ragazzi di Saludecio che hanno visto per la prima volta il mare durante un’uscita con i Get. Storie che sembrano uscire di peso da una versione moderna del libro Cuore. Ma che, forse, se guardassimo le persone per quello che sono e non in base alle categorie a cui le abbiamo assegnate, potremmo costruire una vera integrazione, in cui nessuno si sente inadeguato e partecipa per quello che è.