La diffidenza verso ciò che è diverso nasce dall’ignoranza, intesa come “non conoscenza”. Una verità assodata che si scontra, però, con i tanti pregiudizi e i luoghi comuni nei confronti degli stranieri. Dopotutto anche a noi italiani rode sentirsi definire “d’oltralpe”, “mafiosi” o “corrotti”. Solo partendo dalle storie dei singoli si può varcare quell’insormontabile etichetta che risponde alla voce di “extracomunitari”.
Dati. Dei 335mila residenti della provincia di Rimini, l’11% è straniero, ovvero 36.521 individui stando al 1 gennaio 2014 (vent’anni prima erano poco più di 3.000); praticamente è come se l’intera Riccione non avesse il passaporto italiano. Un flusso cominciato attorno al 1990, rallentato dalla crisi del 2008 ma non ancora scoraggiato. Le comunità più ampie risiedono nei comuni di Bellaria, Mondaino, Morciano, Rimini e San Leo. I più presenti sono quelli in età da lavoro (la fascia 15-64 anni copre il 79%), poi i bambini (16,9%), infine gli over 65 (5,5%).
Quella “strana”
comunità
C’è una fetta di stranieri che rappresenta il simbolo del lavoratore integerrimo poco avvezzo al divertimento: i cinesi. Giunti oramai alla seconda generazione a Rimini, iniziano ad avere ben altro per la testa oltre al lavoro. Quest’anno superano le 2.100 unità in provincia – con il 6,3% del totale-stranieri rappresentano il quinto gruppo – e dai primi anni ’90 crescono al ritmo costante di 100 all’anno. Se i più anziani giunti in Italia in età adulta, faticano ancora ad imparare la lingua, i loro figli preferiscono parlare e mangiare italiano.
A metà strada si trova Gioia (si fa chiamare così, ma è di origine cinese), una quarantenne solare, in Italia da una decina di anni. Frequenta un corso di italiano e, seppur in forma semplice, si esprime chiaramente. Vive e lavora con il marito a Santarcangelo di Romagna al mercato rionale per la ditta d’abbigliamento di lui. I suoi colleghi sono tutti cinesi. “Preferisco questa città a Rimini. – racconta – È più piccola, mi trovo meglio. I primi due anni in Italia stavo male. Non sapevo l’italiano e non capivo niente. Adesso che lo parlo mi piace tanto stare qua, – lo dice con passione – più della Cina! Ci sono tornata solo due volte in 10 anni”. In futuro non sa se si troverebbe a suo agio nella madre patria. Quelli della sua generazione vivono in un limbo dell’integrazione sociale: a metà strada tra i giovani che desiderano restare in Italia e gli anziani che non vedono l’ora di rimpatriare; un conflitto interiore al quale Gioia, per ora, preferisce non pensare.
I suoi tre figli vanno tutti a scuola, uno è nato qua. “Il cuore dei miei bambini è metà cinese e metà italiano, anche se preferiscono il cibo italiano”. Loro parlano perfettamente la nostra lingua e fanno i compiti con i compagni del posto. “Anch’io ho fatto amicizia con le loro famiglie”. Dopotutto l’integrazione da dove può partire se non dalla scuola? La gente del posto, dice, è sempre stata gentile con lei, ma ciò non stupisce; Gioia si presenta bene, nel senso che parla col sorriso ed è gentile, molto più spumeggiante della media dei suoi connazionali stacanovisti. E, si sa, in fatto di rapporti con gli estranei, la percezione a pelle conta molto.
Jie non sa cosa significhi crescere in Cina. Nato in Francia, si è trasferito con la sua famiglia cinese a Rimini a 5 anni, per cui questa è la sua città. Ora di anni ne ha 24 ed è felice: ha appena ottenuto la cittadinanza italiana. Prima di Rimini ha vissuto un breve periodo a Milano, poi degli amici cinesi hanno indicato al padre un lavoro presso il Gros e così hanno fatto le valigie e preso il treno. “Ho più amici riminesi che cinesi. Sono cinese per la fisionomia, ma mi trovo più a mio agio con la cultura italiana, nonostante sia stato più volte in Cina”. Per questioni burocratiche ha perso la vecchia cittadinanza una volta deciso di acquisire quella italiana. Una scelta che ha fatto in autonomia, seppure il padre avrebbe preferito per lui un futuro in Cina a mettere su famiglia nella loro città di origine, a sud di Shanghai, un tempo piccola ed oggi esplosa con la crescita. “Le persone anziane fanno fatica ad affezionarsi all’Italia. – rivela – Sono patriottiche: il loro cuore è rimasto là. Mio padre vuole passare la pensione in Cina. Invece i miei coetanei non comprendono questa mentalità”. Le famiglie della comunità cinese, ma non solo, vivono al loro interno un evidente gap generazionale che è spesso causa di incomunicabilità tra i membri. “Quando mio padre mi rimprovera, magari perché esco la sera o non sto facendo nulla, mi dice che ragiono con la mentalità italiana”. Un vero duro! “I cinesi pensano solo a lavorare. Gli adulti vengono qua con l’idea di fare soldi e non si capacitano di come io riesca ad avere un simile tenore di vita”. Jie cucina cibo italiano per sé, il padre, comprensibilmente, prosegue con le bacchette. Come biasimarlo? Quante “azdore” rinuncerebbero alle tagliatelle per gli involtini primavera? Lui che ha sempre studiato qua non ha mai avuto problemi di integrazione.“Magari sono stato fortunato, ma è sempre andato tutto liscio. Ho vissuto una vita da riminese”.
Mirco Paganelli