Sono più di cento i tabagisti che nello scorso anno si sono rivolti al Centro dipendenze alcol e fumo della Ausl di Rimini. Per la precisione, 101. Soprattutto adulti che hanno già raggiunto condizioni di salute gravi e su cui vige il veto assoluto dei medici sul fumo. “Ma anche di fronte a terapie che comportano l’inalazione di ossigeno, c’è chi non riesce a smettere di fumare”, racconta la coordinatrice del Centro, afferente all’Unità operativa Dipendenze patologiche, Maria Cristina Staccioli. “L’utenza è in lieve aumento a Rimini grazie alla crescente sensibilità dei medici di base e degli specialisti. Ma aumenta anche la gravità delle patologie cardiovascolari e polmonari con cui i pazienti si rivolgono a noi”.
Almeno arrivano con la giusta motivazione a smettere?
“Essere spinti dai giusti propositi è la questione centrale. Molti vengono perché convinti da un familiare, e sono quelli che dopo pochi incontri mollano il colpo. La motivazione deve nascere dentro se stessi”.
Dottoressa, la crisi economica può avere contribuito alla variazione del trend?
“Siamo attivi dal 2002 e allora non era presente la dipendenza da fumo per stress correlato alla perdita del lavoro come, invece, avviene oggi. Il crescere delle ansie è il motivo principale per cui un individuo comincia a fumare e negli ultimi anni anche sul nostro territorio si è visto un aumento degli elementi stressanti”.
La gente definisce il fumo un vizio, come il dormire da una parte del letto. Non si rischia così di sottovalutarlo?
“Il fumo crea dipendenza esattamente quanto l’eroina e come tale è ascrivibile all’elenco delle patologie; non si tratta solo di un vizio, e questo va affermato con forza! Per curarla occorre assistenza specialistica, perché da soli non ci si riesce”.
Quali sono i tratti comuni con le altre dipendenze?
“Le persone dipendenti sono accomunate dalla difficoltà di tollerare situazioni d’ansia e dalla scarsa capacità di affrontare i problemi della vita. L’angoscia può raggiungere punte elevate in relazione ai problemi di ciascuno e, al loro aumentare, cresce il numero di sigarette fumate”.
Quando il paziente inizia a ridurre le dosi, cosa succede?
“Il grado di diminuzione deve essere un obiettivo fattibile, fissato in accordo con il paziente. Si procede gradualmente e quando iniziano ad insorgere alcune difficoltà come l’insonnia o i problemi intestinali si ricorre a tecniche alternative o a sostituti della nicotina. Ma la fase più critica è quando si raggiunge quota zero sigarette”.
Rimanere in quella soglia è difficile?
“Sì, ma i risultati del nostro Centro sono buoni. Circa il 60 per cento di chi arriva fino in fondo riesce a smettere di fumare. La difficoltà più grossa sta poi nel mantenere quella condotta nel corso della propria vita”.
L’assistenza, dunque, non si ferma?
“No. Dopo aver smesso di fumare comincia la seconda fase del percorso. Troppo spesso si cade nel tranello del dare «un tiro e basta» a una sigaretta, «tanto non riprendo a fumare» si dicono coloro che ci riprovano. Solo che quel tiro, come ci insegna l’esperienza, induce a una ricaduta nel 98 per cento dei casi”.
Quanto incide il fumo passivo nella recidiva?
“Parecchio. Chi ha smesso di fumare ma frequenta ambienti fumosi, lavora con colleghi che fumano, vive con familiari fumatori vive un più alto rischio di ricaduta perché anche il fumo passivo funge da stimolo”.
Cosa è più difficile nella conquista dell’indipendenza da sigaretta?
“Cambiare stile di vita. La sigaretta è un rituale. I nostri pazienti la chiamano l’amica, la stampella. Ritrovarsi senza il pacchetto di sigaretta in tasca comporta il bisogno di trovare un sostituto. È molto importante avere una vita privata ricca, fatta di interessi e passioni che tengano impegnati”.
Mirco Paganelli