Siamo fragili. Ce l’ha evidenziato un virus da 80 a 160 milionesimi di millimetro, che abbiamo imparato a conoscere come il “coronavirus”, un microrganismo acellulare con caratteristiche di parassita obbligato.
L’essere umano, quello che in tanti pensavamo lanciato verso orizzonti infiniti grazie all’intelligenza artificiale, alle scoperte scientifiche e astronomiche, ai viaggi nello spazio, è stato atterrato da un microrganismo visibile solo al microscopio.
E improvvisamente in tanti ci siamo ricordati che la natura umana è sì cercare di andare sempre oltre il proprio limite, ma anche che il limite fa parte indelebile della nostra stessa identità. C’è voluta, per ricordarcelo, una pandemia che solo in Italia, ad oggi, ha fatto oltre 100mila contagiati (ufficiali) e qualcosa come 11mila morti. Oggi siamo in piena emergenza e non c’è tempo per tanti ragionamenti sofisticati.
Qualcosa però appare già in tutta la sua drammatica concretezza e merita di essere registrato fin da ora.
Questa fragilità ci porta a essere costitutivamente “legati” agli altri: la pandemia potrà essere un ricordo solo se affrontato assieme. La mia salvezza dipende dall’altro che mi è accanto (non troppo!) e viceversa. Da solo non posso nulla.
Questa distanza forzata, questa assenza obbligata delle relazioni con gli altri, queste morti che possiamo piangere solo da lontano, ci fanno ricordare che l’uomo è un essere in relazione e che fa parte di una comunità. Era da tanto che gli italiani non si percepivano parte di una stessa comunità come sta avvenendo in queste settimane.
Si intuisce che per sconfiggere il virus serve un “noi” autentico, condiviso, consapevole. Ormai è chiaro a tutti che questa non è una “disgrazia” che riguarda “solo” qualche Paese (Cina, Italia, Corea). Siamo di fronte a una pandemia planetaria e quindi anche per l’Europa e gli europei è venuto il tempo di decidere (velocemente) se sono o no una comunità vera, con un destino comune.
Questa fragilità che stiamo riscoprendo come nostro tratto ci indica che ciascuno è responsabile dell’altro. Ma non si ferma qui. Il nostro limite ci sbatte in faccia le domande fondamentali che certo narcisismo tecnocratico ha tentato di farci dimenticare: chi siamo, dove andiamo, che senso abbiamo.
Domande che in modo drammatico ci sono ricordate dai tantissimi morti di questi giorni, morti soli e sepolti in solitudine, perché questo virus ci ha condannati anche a questo. Non sappiamo se, superata l’emergenza, ricorderemo tutto questo.
Quello che è certo è che la nostra fragilità è quello che ci rende davvero umani e ciò che lascia spazio all’incontro con l’Altro. Che da sempre ci attende.
Lauro Paoletto