È uno degli uomini politici più importanti di Rimini. Di estrazione contadina, e grazie a quell’“impasto”, Armando Foschi per una vita si è speso tra cooperazione e sindacato, alimentato dalla formazione in Azione Cattolica. Per quesi tre decenni ha rappresenttao Rimini in parlamento. Ora ha tagliato un altro grande traguardo, quello dei 90 anni. Un appuntamento che impone uno sguardo all’indietro e qualche bilancio.
Il partito di ispirazione dei cattolici non c’è più ma il ruolo dei cattolici in politica è tutt’altro che luminoso.
“Contraddizioni e anime diverse esistevano anche nella Dc. Però noto un certo risveglio nei confronti della politica, da parte dei giovani e anche della gerarchia ecclesiatica. Per i cattolici in politica serve un’alternativa in grado di rispondere ai bisogni reali delle persone. Servono risposte, non proclami né vendette.
Passato tra luci ed ombre, nell’Italia dello sviluppo la Dc dovete fare accordi con le altre forze politiche ma ebbe comunque un ruolo decisivo nello sviluppo (ancorché disordinato), del Paese nel rilancio dell’occupazione.
La situazione negli anni è andata degenerando perché a differenza delle prima classe dirigente che aveva una forte formazione cattolica (personalmente, ad esempio, vengo dalla formazione in Azione Cattolica), le seguenti non si sono alimentate questa fonte, aumentando la distanza dai valori che contrassegnavano la prima esperienza di Democrazia Cristiana”.
Dunque?
“Arrivato al traguardo dei 90 anni sono super partes. Non sono più impegnato in politica e nella vita pubblica come un tempo, ma seguo ancora con passione ed interesse quanto accade e le vicende che hanno comunque segnato la mia esistenza. Certo, l’attuale situazione politica e sociale mi amareggia e spesso mi delude, ma non sono affatto rassegnato al declino inevitabile: amo ancora avanzare proposte, suggerire idee e consigli”.
Foschi, lei viene dalla campagna di Coriano e ed è qui che nasce la sua formazione.
“Nasco contadino figlio di contadini, e mezzadro. Entrato nel direttivo della federazione mezzadri della Cisl, sono poi stato catapultato a San Marino in qualità di dirigente della Confederazione Democratica. Contestualmente seguivo la politica italiana. La mia formazione sociale nelle Acli e nella Cisl mi ha consentito una crescita personale aperta al mondo del lavoro”.
È seguita la fase della formazione al Centro Zavatta di Rimini. Vice direttore dal 1962 al 1974. Per 26 lunghi anni ha occupato la poltrona dell’opposizione in casacca Dc a Coriano (e poi a Rimini), stagioni contrassegnate da battaglie politiche furibonde. Consigliere provinciale della Valconca dal 1968 al 1970 e vice presidente della Provincia di Forlì-Cesena-Rimini, il grande salto lo spicca nel 1976, quando approda in Parlamento.
“Sono eletto Senatore, e ricoprirò quel ruolo fino al 1994 con due pause. Curiosità: sono approdato a Roma insieme a Nicola Sanese, un altro riminese innamorato della politica. Insieme abbiamo iniziato l’esperienza romana e insieme l’abbiamo terminata. Con la differenza che Nicola è sempre stato eletto, io sono subentrato a legislatura iniziata per due volte”.
Insomma, la politica era nel suo Dna.
“Ero ragazzino che già nel 1940 andavo in piazza ad ascoltare la dichiarazione di guerra dell’Italia all’Inghilterra. E a 12 anni cercavo ogni occasione per sbirciare il quotidiano e avere informazioni sull’andamento della guerra e della nazione, tra lo scetticismo di mio babbo.
A Roma, per gli 80 anni dell’Azione Cattolica, volli a tutti i costi vedere la sede del Parlamento.
Questo desiderio di impegnarmi per la cosa pubblica, insomma, l’ho coltivato da sempre. Una vocazione che in maniera profetica mi riconobbe il mio parroco, don Michele Bertozzi che 20 anni prima mi incoraggiò così: «Armando, vai avanti, dalla Camera del Lavoro ti troveremo a quella dei Deputati»”.
Qual è stato l’uomo politico riminese che più l’ha segnata?
“Giuseppe Gemmani. Nutriva considerazione nei miei confronti, quand’io ero ancora un giovane alle prime armi. Gemmani era il primo candidato riminese della Dc per il Parlamento, ma il giorno delle firme per l’accettazione della nomina, raggiunto telefonicamente, fu inamovibile: lascio strada libera a Foschi”.
Andreotti lesse il suo libro e le inviò uno scritto di pugno per complimentarsi del testo.
“Dal quale si evinceva che l’aveva letto, il mio volumetto.
All’epoca della mia presidenza nazionale del Turismo e Sport di Confcooperative, organizzavamo convegni annuali, dei quali pubblicavamo gli atti. Andreotti ne ha sempre ricevuto una copia e immancabilmente mi rispondeva”.
Le cooperazione è un altro filo rosso del suo percorso.
“La prima esperienza fu in campagna, a Coriano, con la cooperativa della trebbiatrice. Una comunità degli operai e dei contadini. Mi venne l’idea di realizzare una cucina volante, con una cuoca in grado di soddisfare le esigenze di 34/40 operai. Andavo personalmente con lei a fare la spesa. Risultato: gli operai spendevano meno, ,mangiavano meglio e furono protagonisti di una bella esperienza di solidarietà”.
Era il 1954. Vent’anni più tardi (1973, per la precisione), l’esperienza cooperativa si struttura, ma questa volta teatro delle operazioni è Rimini.
“Insieme a Mario Gentilini avevamo censito le esperienze di cooperative sparse sul circondario e non coordinate. Da qui l’idea di Confcooperative, la cui prima bozza di sede è in un ufficio nel palazzo di via Sigismondo, ora sede della Camera di Commercio. Gli associati erano Centrale del latte, Cantine Sociali, Cooperativa Ferrovieri, Cooperative dell’Acli casa e pochi altri. Dopo l’intensa attività a favore del movimento cooperativistico dovuta a Babbi e al presidente delle Acli Floridi, si registrò un lungo periodo tra gli anni ’50 e ’70, di sostanziale inerzia.
Dai primi anni ’70 ci rimboccammo le maniche con coraggio e passione, fino a giungere oggi
a quasi 200 cooperative, con oltre 16.000 soci. Un vero Movimento che opera nel campo agricolo, dell’ambiente, del turismo, del sociale e del credito cooperativo.
Confcooperative ottenne l’autonomia istituzionale da Forlì nel 1983, prima ancora della Provincia di Rimini”.
Di Confcooperative Rimini è stato presidente per 20 anni, un’epoca che ha nella costruzione della nuova, grande sede di via Marzabotto il suo culmine.
Di recente l’associazione è stata inglobata a Ravenna in un unico soggetto. È il tramonto di un’ideale, la fine di un sogno o una necessaria aggregazione per fronteggiare la globalizzazione?
“L’Area Vasta Romagna sta avanzando in diversi settori. L’accorpamento rende più forti, garantisce maggiori servizi e più risparmi. Servizio sanitario, trasporti, Consorzio di Bonifica, Camera di Commercio: questa idea è già realtà”.
Sull’accorpamento che garantisce maggiore risparmio molti utenti di Hera non sarebbero d’accordo. Tornando a Confcooperative Romagna, l’alleanza parte però decisamente monca. Manca Forlì, un territorio che recita la parte del leone in questo movimento.
“Il cammino verso l’unificazione delle Confcooperative della Romagna è durato un anno e mezzo, purtroppo solo Rimini e Ravenna sono arrivate al traguardo, rispettivamente con il 20 e l’80%, ovvero 20 e 40 membri nel consiglio provinciale composto da 60 persone.
Rimini è arrivata a questo risultato dopo varie vicissitudini nel corso della sua storia: ha perso negli anni la Centrale del latte e il macello cooperativo di Poggio Berni, ha visto tramontare l’esperienza delle Cantine Sociali. Però ha rappresentato e rappresenta un cardine nel sociale e nel turismo, e anche il credito cooperativo ha assunto connotazioni importanti.
Rimini insomma è un movimento cooperativistico giovane ma dalla forte peculiarità. Per questo nell’ultimo consiglio di Confcooperative a Rimini, nel mio commiato a questa realtà alla quale ho dedicato una vita, mi sono permesso un’auspicio: mantenete la nostra identità. Non sono contrario al rinnovamento ma vivo con sofferenza questa avvenuta fusione con la sola ravenna, che non può certamente dirsi Area Vasta di Romagna.
E Rimini con questa unificazione ha perso un pezzo della sua storia”.
Ha fatto – e fa – un gran parlare l’eliminazione dei vitalizi ai parlamentari. Ma lei, Foschi, fin dal 2012 aveva richiesto una sostanziale riduzione del trattamento, inviando anche una lettera al Presidente del Senato Schifani.
“L’entità del mio trattamento, frutto di anni di lavoro, mi causava disagio, di fronte alla drammatica crisi che inchiodava nella povertà una crescente moltitudine di famiglie.
Era – ed è – necessario un doveroso scatto di generosità, non solo personale ma collettiva verso il Paese”.
Schifani rispose alla lettera. Sostanzialmente allargando le braccia…
“A suo dire non era possibile intervenire nella maniera da me auspicata. Insomma, era impossibile per lo Stato ridurre i vitalizi”.
Come ha accolto, dunque, il recente provvedimento del nuovo Governo?
“Al di là del metodo e di certa strumentalizzazione politica, il provvedimento di revisione dei vitalizi risponde in pieno alle mie attese di politico e di uomo”.
Insieme a sua moglie Grazia, avete dato la vita a quattro figli. Nessuno però ha intrapreso la carriera politica. Una sconfitta per Foschi padre?
“Federico e Riccardo hanno privilegiato l’impegno nel sociale (Riccardo nel mondo della cooperazione e del credito in particolare; Federico per anni è stato presidente della Pol. Stella e più volte impegnato nei consigli di quartiere), Marco è diventato sacerdote. No, non la reputo una sconfitta perché nessuno di essi aveva la politica nel dna e ciascuno ha intrapreso un’altra strada, la propria vocazione.
Nelle loro scelte forse può anche aver influito un padre così impegnato in politica, immerso in quella «famiglia più grande» e a disposizione di tutti.
Tornavo da Roma nel fine settimana ma poi ero rapito da convegni, incontri, tavole rotonde, riunioni. A casa in pratica non c’ero mai e anche quando c’ero ero continuamente rapito dal telefono, tanto che un mio figlio una domenica infastidito dalle tante chiamate ricevute all’ora di pranzo, tornando a tavola, mi disse, serio: «Sai, babbo, stiamo quasi meglio quando non sei a casa». Questa frase mi ha scavato dentro. So di aver sottratto tanto alla mia famiglia a causa della politica, spero di aver restituito qualcosa almeno in queste ultime stagioni.
Mi consenta in proposito una pubblica espressione di affettuosa gratitudine in primis a Maria Grazia, con i figli Marco, Riccardo, Federico e Antonella, sempre a fianco nella mia straordinaria esperienza”.
90 anni, tempo di bilanci?
“Già gli 80 erano un traguardo importante, un arrivo a braccia alzate sotto lo striscione dell’anzianità.
La Provvidenza mi ha regalato altre dieci stagioni, due lustri nei quali ho potuto coltivare meglio la famiglia, il rapporto con i figli, i nipoti, alcuni interessi personali, e sempre in discreta salute.
A 90 anni amo intensamente la vita (e spero di potermi rendere ancora utile), con le sue gioie e i suoi dolori. La vita è un dono continuo del buon Dio, cerco di esserne il più degno possibile”.