Classe 1914, bisnonna. Flora Morri è una delle ultime quasi centenarie nate e cresciute per anni nel Borgo San Giuliano. Solo dopo il matrimonio col suo Eugenio Pazzagli, lui era nato nel Ghetto dei Pirati sul fiume Marecchia verso le ‘Celle’, si era allontanata ma di poco, dal cuore pulsante della borgata, trovando un compromesso a metà strada dove ora c’è il semaforo con il viale Zavagli. La memoria non gli fa certo difetto, alla Flora, come neppure le gambe.
La puoi incontrare al mercato coperto, sempre intenta a risparmiare, o in giro per il borgo, in sella alla sua vecchia ‘Graziella’, e guai a comprargliela nuova. Lei alta un metro e cinquanta non ci arriverebbe davvero, su quelle bici troppo ‘moderne’. Tutti i ‘riminesi doc’ la conoscono, quelli di ‘una certa età’. I più giovani, gli ottantenni, la invidiano quando la incontrano, per la sua forma fisica e di mente, e la battuta sempre pronta. E a chi gli chiede come fa, risponde semplicemente “Boh! A stag bein, fasend al corni. E po’, quand can mi vidrè piò, e vurà dì clè ora ad recitè un Pater, Ave e Gloria, che a sarò morta”.
Lei così come altre donne del borgo che sono ancora arzille, quando si incontrano ricordano i bei tempi, quando San Giuliano era ancora un luogo di pescatori …e la miseria della guerra …
Flora si racconta
“Però si stava meglio quando si stava peggio. Non per il mangiare e le comodità, quelle di oggi non le scambierei di certo, ma per la famigliarità, gli affetti, l’unione. Ci aiutavamo tutti e dei problemi di una famiglia, anche i vicini, se ne facevano carico. Mio babbo, conosciuto come ‘Bartein’, aveva un negozio di alimentari, con la casa proprio lì, attaccata dove c’era quella fila di abitazioni sul fiume, che è stata abbattuta per far posto alla ‘streda mestra’, quella che attraversa il ‘Ponte del Diavolo’. Noi ragazzini del primio ventennio del ‘900 siamo cresciuti tutti lì.
Ha avuto anche un carretto tirato da un somaro, faceva commercio di frutta e verdura e quando andava in giro per la città urlando ‘…partugali doniii, frutta fresca…’, aveva un occhio per le famiglie bisognose e di nascosto da noi portava sempre qualcosa a chi sapeva lui. In casa era severo: un padre padrone, ma con gli altri era tutta un’altra cosa. Mi ricordo quando prendeva in braccio la Nicolina, (la figlia dei nostri vicini) e la spingeva in alto per fargli prendere i‘sisi’ gli acini di uva che appendevamo ad una corda al soffitto perché si mantenessero anche per l’inverno. Ma sa nun,boti da orb. Non voleva che mi tagliassi i capelli, ho avuto per anni la coda di cavallo tirata all’indietro. Avevo caldo e per giocare mi davano fastidio… e poi non c’era la doccia, gli shampo e il balsamo per districarli. Dovevi pettinarli per ore e facevano tutti i nodi, una tortura”.
Aveva anche un fratello famoso la Flora. Eugenio Morri classe 1911, disperso in guerra, fu uno dei bambini più premiati di Rimini ai concorsi di bellezza che allora andavano molto di moda.
“La mia povera mamma, morta che io ero ancora una ragazzina, lo ha portato per tre anni al concorso che si faceva qui a Rimini. Ha vinto tutte le volte. È stata una festa nel Borgo. Siamo finiti tutti sui giornali, con tanto di foto del più bel bambino dell’anno”.
Amarcord dal Borgo
Flora attinge dalla sua memoria, e mette in fila uno dietro l’altro i personaggi che hanno popolato la sua infanzia.
“Nel cortilone della Parrocchia viveva la Isaia, era una vecchia che teneva le pecore.
Mi ricordo la Maria de cafitein (Martini) che stava nell’angolo di via Forzieri.
Fighin il geometra, che si diceva avesse l’amante, stava di rimpetto al forno del borgo, vicino alla casa dove sono nata, di fianco a Bellicchi, quello famoso che aveva la cartoleria. Cecco ad Galozz accomodava le biciclette”.
A flash gli vengono in mente persone e storie, senza un ordine cronologico, perché per la Flora le date e il tempo non sono mai stati rilevanti.
L’avventore che veniva dal veneto
Camma, gli è rimasto impresso. Non era del posto, era uno degli avventori della trattoria all’angolo con l’attuale viale Zavagli, dove la Flora aveva lavorato verso i 18 anni. Aggiustava il rame, le pentole e gli altri oggetti, veniva dal Veneto, a fare il lavoro stagionale. Era bravo nel suo mestiere, era uno dei pochi che sapeva fare nuove le casseruole.
La multa o la prigione?
“Una volta non c’erano i soldi per pagare le imposte, allora i nostri vecchi la sera preparavano il cartoccio con pane e vino e andavano a scontare, al posto di pagare, alle prigioni di piazza Malatesta. Stavano lì una notte, ma facevano ‘baracca e renga’ coi secondini che li aspettavano per giocare a carte. La mattina tornavano a casa a smaltire la sbornia.
A quei tempi in parecchi avevano fama di anarchici e qualsiasi cosa succedesse andavano a prenderne qualcuno per portarlo in prigione per un pò. Così spesso erano affollate. Queste erano le cose del Borgo”.
Di Morri Flora ce n’era più di una, tutte parenti. “Flora eravamo due, poi cera la Fedora e la Gradisca, quella famosa di Fellini. Eravamo cugine. Me am ciameva Morri Umberto, una Morri Antonio e l’altra Morri Michele, ci avevano messo su i nom di nost bà”.
..E ancora ricordi
La via San Giuliano passava davanti alla attuale Chiesa, da lì transitava la Mille Miglia. Ma passavano anche i carri dei contadini trainati dai buoi, quelli bianchi di razza romagnola, che dalla via Emilia, fin da Santarcangelo, venivano giù a Rimini, per fare il mercato nel Borgo Sant’Andrea, passando dal Ponte Tiberio, ingresso nord per il centro degli scambi commerciali.
“Davanti al Chiostro della Chiesa di San Giuliano c’era una piazzetta con una fontana dove si fermavano a bere e abbeverare le bestie – racconta Flora – poi hanno fatto lavori e costruito. Durante gli scavi si dice che siano venute fuori un sacco di ossa dei monaci benedettini che abitavano il convento. Lì a fianco c’era l’osteria della Montagnola”.
Buttata giù la fila di case sul rivalone del fiume, che arrivavano fino al Ponte, per costruire la strada principale (La streda mestra: attuale via Tiberio), Bartein, padre della Flora, si era trovato senza negozio e aveva aperto l’alimentari nell’angolo di passaggio della via Tiberio, dove adesso c’è il negozio per animali. Ma faceva poco rispetto a prima, perchè era un punto di transito, in curva e un pò in salita, dove non ci si poteva fermare con i carri. Fu a questo punto che comprò il carretto con il somarino sardo.“Znin, znin, con una pariglia che era qualcosa ad bel. Andava giù al Grand Hotel e portava i bambini a spasso, a ciapemie un sac ad sold”.
E poi…le guerre
“La prima non me la ricordo, ero troppo piccola, ma la seconda invece…Presto è arrivato il fascismo, nel ’28, quello me lo ricordo bene, il nostro ghetto è stato uno dei più bersagliati. Un giorno mio fratello era in ospedale malato, mio babbo aveva attraversato il Rione Clodio per andare a trovarlo, ma nell’uscire dall’ospedale ‘i l’ha ciap’, nel Borgo marina. Erano già lì, a perlustrè, e i bastuneva ma tot, gli hanno rotto una scarana in tla testa. E lò zet. Se disevte qualcosa mi fascesta it mazeva sobit”.
Si infervora ancora la Flora al ricordo di questi episodi, gesticola con le mani alzate e da minutina com’è, sembra trasformarsi in un leone: spalanca gli occhi, lucidi, e continua a raccontare.
“Quand clè nu chesa, grondando sangue, l’era mat dur. Tutti i nostri vecchi a quei tempi tenevano una rivoltella nascosta, che la mi ma l’aveva una paura, dogni tent gliela purteva via, e la buteva zo in tla ciaviga (la mia mamma ogni tanto la buttava nel tombino), così non l’ha trovata per fortuna. Allora lo, cor cor, l’era andè zo me fiom, sotto il Ponte di Tiberio, per inseguil, mo sa fasevie po ma una banda ad mat isè… E si si ne ho passate”.
Erano vivi anche i genitori del marito della Flora, la Nuccia e Battista, che era un pezzo di pane, aveva paura della sua ombra. Era stato avvisato dai suoi amici, che c’era uno squadrone che lo aveva messo nella lista, per bastunel.
“Così u iè andè ta gli urecci ma la su moi. La Nuccia è andata giù alla ferrovia dove lavoravano il marito con il figlio. Un donnone, come una carabiniera, li ha incontrati poco dopo la Madonna della Scala. La ia port la rivultela. ‘To’ dis chi it vò amazè, maziè prima tè’. A lei guai a toccargli i figli e il marito. Era la guerra nella guerra, una lotta per la sopravvivenza quotidiana”.
Come tante altre famiglie, la loro è stata sfollata prima a San Marino sotto le gallerie della ferrovia e poi a Santarcangelo. “Dormivano su assi di legno con la paglia sopra, e quando sono tornati nella casa dei Morri, dopo i bombardamenti, l’hanno trovata occupata dai neri”. La Flora aveva una figlia di 15 giorni quando il marito partì in guerra per Cefalonia. Per anni di lui non seppe più niente, tanto che lo credettero morto nell’eccidio con altri migliaia di soldati. Era della vecchia guardia comunista, tutto d’un pezzo, e nel dopoguerra ha contribuito con il suo lavoro (aveva un’impresa edile) alla ricostruzione della città. Lei non era sfollata per la guerra, perché con l’acqua nei polmoni non riusciva più a respirare, l’avevano già data per morta più di una volta.
“E invece a so ancora iquè a quasi 95 anni, ma li porto bene no?”.
Se vuoi guadagnarti la sua simpatia, basta dirgli che non dimostra i suoi anni…e in fondo è la verità. Si accontenta di poco, ha passato tante tribolazioni e un cambio di secolo, cosa vuoi che la spaventi più adesso? “Ho paura per i miei bis nipoti, sono grandini, ma questo mondo va a rotoli, c’è poco da fidarsi. Oggi si vanno perdendo i valori: prima di tutto la coesione sociale e la solidarietà, il rispetto per le tradizioni e l’esperienza degli anziani. tutte cose importanti”. E se lo dice lei, gli crediamo.
Cinzia Sartini