Compassione e pietà per noi e per gli altri, ma anche rispetto di noi, della nostra vita e di quella degli altri. Questi in fondo sono i parametri per accostarsi al disegno di legge che è in discussione in Parlamento sul Dat, ossia sul consenso informato e sulle dichiarazioni anticipate di trattamento. Molti parlano di testamento biologico ma è un linguaggio improprio.
Quali sono i limiti, perché questo è il problema, entro i quali può muoversi una legge che resti profondamente umana? Da un lato nelle fasi terminali della vita occorre evitare il cosiddetto accanimento terapeutico. È profondamente umana una morte dignitosa che proprio in quanto tale ne rispetta la sacralità. E per noi cristiani è una morte accompagnata dalla preghiera, perché apre alla risurrezione.
Indubbiamente occorre ovviare a un inconveniente. Potrebbe succedere che ciò che al momento della firma del Dat ha i caratteri di un accanimento e non di una cura dopo qualche tempo per i progressi della medicina si trasformi in una buona terapia. È giusto dunque che la legge preveda in non più di cinque anni la durata della dichiarazione.
L’altro paletto di confine è rappresentato dall’evitare ogni forma di eutanasia. Si sa che il rispetto della vita, il famoso comando di non uccidere, presente in tutte le culture, è un divieto molto delicato. Introdurre delle forme, in cui può essere raggirato, consegna un potere enorme a medici, parenti, Stato, sanità, che potrebbero trovare utile alle casse anticipare la morte di un malato che risulti molto oneroso nelle cure.
Questione difficile da dirimere è l’accanimento terapeutico. Vi è un criterio generale adottato in medicina: la terapia deve essere proporzionata al fine, ossia deve curare. Non vi rientrano per la medicina l’idratazione e l’alimentazione, “tranne nel caso in cui – recita lo stesso disegno di legge – non siano più efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali al corpo”.
Una domanda di fondo attraversa tutta la questione. Ma una persona non può fare quello che vuole della propria vita, persino decidere di togliersela? Nella normalità il suicidio non viene considerato come un atto virtuoso. Anzi, ne cerchiamo una spiegazione in una forte depressione autoaggressiva da curare. La gravità della malattia può portare a questi estremi, ma è ciò che nessuno si augura. Conta invece che il malato, i parenti non siano lasciati soli ad affrontare il dramma.
Insomma la libertà di abbreviare la vita, anche nei passaggi più difficili della malattia, cioè il suicidio assistito, è il classico forellino nella diga, quello che la fa cadere. È evidente che non siamo liberi di nuocere a noi stessi neanche in casi difficili.
E non è vita di qualità solo quella che esclude ogni dolore, seppur la sofferenza deve essere lenita in tutti i modi. Importante è anche godere di una qualità della vita, come insegna talvolta la vecchiaia, anche minore. E soprattutto va ricordato che qualità della vita è una carezza, una mano affettuosa, un figlio o un genitore accanto.
Certo l’articolo 32 della Costituzione pone un limite a prevedere dei trattamenti obbligatori, ma non sembra comprendere l’autodeterminazione come diritto a rifiutare le cure, perché la salute non è solo un diritto ma un interesse della collettività. In fondo l’art. 32 consiste piuttosto in un freno al potere del legislatore.
Come si vede il trattamento di fine vita, a cui non è obbligatorio aderire, è un tema scottante, che ci riguarda direttamente e che coinvolge le convinzioni più profonde di una persona e i principi di riferimento di una società. Proprio perché è un problema complesso occorre una alleanza tra medico e paziente o, nel caso non sia cosciente, con il suo tutore. Ma un medico non potrà essere costretto a un trattamento che non corrisponde alle sue valutazioni in scienza e coscienza.
Bruno Cescon