Per la prima volta alla Scala è andata in scena l’opera di Franz Schubert: un titolo di rarissima esecuzione almeno in Italia
MILANO, 27 giugno 2018 – La sensazione è quella di girare le pagine di un antico volume ottocentesco con le figure che progressivamente si animano. Peter Stein ha immaginato il medioevo cavalleresco dei paladini in bianco e nero (arricchito da un’ampia gradazione di grigi) nella consapevolezza che il libretto di Fierrabras utilizzato da Schubert rappresenti soprattutto lo sguardo ottocentesco – l’opera è del 1823 – su un’epoca lontana più di mille anni. Una soluzione registica in grado di valorizzare (eccessi didascalici compresi, vedi le palme argentee dei cavalieri cristiani quando vanno a negoziare la pace con i saraceni o il cuore rosso finale, che sancisce la riappacificazione) una vicenda che annovera fra i protagonisti anche Carlomagno ed efficace, soprattutto, nell’attenuare la frammentarietà narrativa del testo di Joseph Kipelwieser, caratterizzato da continui salti di scena: l’impressione diventa, allora, quella di sfogliare una pagina dopo l’altra, di chiudere un capitolo per aprirne subito uno nuovo.
Lo spettacolo visto alla Scala, con la scena di Ferdinand Wögerbauer e i bellissimi costumi di Anna Maria Heinreich, proveniente dal Festival di Salisburgo, ha forse il suo momento più suggestivo nel secondo atto, durante la scena della torre, dove i paladini assediati – affacciandosi a un’apertura – danno conto di quanto succede all’esterno: secondo un affascinante meccanismo teatrale, il tempo del racconto non coincide con quello dell’azione. E se il libretto si rivela avaro di astuzie teatrali, a cominciare proprio da un protagonista che entra in scena in sordina a opera già pienamente avviata, la melodizzazione di Schubert è capace d’infondere a Fierrabras lo stesso fascino dei suoi meravigliosi Lieder. Bisogna, però, saperla valorizzare.
La regia di Stein non è mai prevaricante e, soprattutto, riesce a trarre il meglio da ogni melologo – qui si tocca davvero con mano la sua grande esperienza teatrale – senza che si avverta mai alcuna frattura fra canto e parlato. Non altrettanto, invece, può dirsi dell’esecuzione musicale: il direttore Daniel Harding si è concentrato soprattutto per ottenere precisione dall’orchestra, peraltro apparsa in forma non proprio smagliante, senza scandagliare troppo in profondità una partitura che ha proprio nella sua apparente eterogeneità uno dei principali motivi di fascino, sia sul piano formale sia per i debiti verso l’opera tedesca e italiana (dal Fidelio al Rossini serio). Il cast lo ha assecondato correttamente, a cominciare dal protagonista: il solido tenore Bernard Richter, a suo agio nei panni del leale e generoso antieroe. Tenore anche il suo rivale Eginhard, interpretato da Peter Sonn con ampio ricorso al falsetto, mentre nei panni del paladino Roland il baritono Markus Werba si è trovato in più di un’occasione a forzare i suoni. Il basso Sebastian Pilgrin, come Carlomagno, è andato perdendo di mordente nel corso della recita, mentre Lauri Vasar – ancora un basso – ha reso con efficacia Boland, il principe dei Mori, più impegnato a combattere i figli ribelli che i nemici cristiani. Nei panni di sua figlia Florinda si è imposta Dorothea Röschmann per i sostanziosi mezzi e una voce sempre ben timbrata anche nel registro grave, che le ha consentito di esprimere notevole forza drammatica e di essere un’autentica trascinatrice in nome dell’amore. Più sfocata e con acuti talvolta un po’ tirati, l’altro soprano, Anett Fritsch, la bella figlia di Carlomagno contesa dai due rivali.
Una preziosa occasione di ascolto di un’opera rarissima in Italia (per la prima volta questo Singspiel è approdato nel teatro milanese!) e che uno spettacolo, attento alle ragioni della musica, ha permesso di restituire al suo status di prezioso tassello della neonata opera tedesca. Rinunciando ad avvalersi di quei filtri – o più spesso forzature – oggi così di moda, per ricondurre tutto all’attualità. Tanto più che, a saper leggere e ascoltare, le ambiguità dello scontro fra civiltà era ben delineate già due secoli or sono.
Giulia Vannoni