Sono 289 le Case famiglia della comunità Papa Giovanni XXIII nel mondo, 238 in Italia e 51 all’estero. 789 sono i minori accolti di cui 62 in situazione di grave disabilità, gli adulti invece sono 1730 di cui 310 disabili. Di questo “fenomeno”, nato nel luglio 1973 da una geniale e felice intuizioni di don Oreste Benzi, si dibatterà nel convegno nazionale “Una famiglia per tutti”, organizzato il 31 maggio presso RiminiFiera.
Fra i relatori il prof. Andrea Canevaro, noto pedagogista dell’Università di Bologna, di casa a Rimini per motivi professionali, che interverrà nella tavola rotonda finale. Con lui abbiamo anticipato alcuni dei temi del Convegno.
Prof. Canevaro, la Comunità Papa Giovanni propone la Casa Famiglia a “multiutenza complementare” per accogliere chi ha bisogno. È un modello basato sulla famiglia “reale” composta da un padre e da una madre, con figli naturali e figli accolti rigenerati nell’amore, nonni, zii… insomma accolti con disagi del tutto differenti tra loro.
Oggi ci sono più di 250 case famiglia in tutto il mondo. È un modello che funziona. Ma qual è il progetto pedagogico che sta dietro, e che la rende così efficace?
“Lo chiamerei un progetto basato sulla pedagogia della prossimità. Che vive su rapporti con chi ci sta vicino. Senza chiedere il curricolo, o un attestato professionale, un’età o un genere, se inciampo cerco di aggrapparmi a chi è vicino a me in quel momento. Devo avere fiducia. Nei confronti di una persona sconosciuta? Le persone che meritano fiducia sono molte; certo molte di più di quelle che non la meritano. Che sono una minoranza. La minoranza tende a ridursi ancora se facciamo circolare fiducia. Chi è stato vittima di pregiudizi, anche appoggiati a fatti reali – come la tossicodipendenza, l’irregolarità della condotta, e altre cose di questo genere –, se viene interpellato avendo fiducia ed essendo prossimo, può riservare sorprese felici. La condivisione fa il resto. Non si tratta, avendo inciampato, di appoggiarsi un istante e poi scostarsi, avendo recuperato l’equilibrio. Si tratta di fare la strada insieme”.
In questa famiglia “allargata” a figli rigenerati nell’amore (disabili psichici e fisici, ex tossicodipendenti, anziani, ex prostitute, etc.) qual è il ruolo che giocano invece i figli naturali? Con quale bagaglio culturale, sociale, educativo si presenteranno poi, a loro volta, nella “società” una volta che usciranno dalla propria casa famiglia?
“I figli naturali vivono una situazione che apre. Intanto non possono considerarsi una proprietà esclusiva, che risulterebbe se i genitori dicessero «i miei, o nostri figli». Questo sigillo di proprietà salta. Salta la proprietà e nasce la responsabilità. Che non vive se non aprendosi a chi incontriamo. Rompe la dinamica dell’agire in automatico, secondo abitudine, non vuol dire aver pronto un nuovo agire, altro. Vuol dire costruire cercando di cogliere occasioni, anche piccole, a tentoni come uno che non ci vede, alla ricerca di una fessura che apra a nuove prospettive ma senza ancora mostrarle. In questa fase, è più la resistenza all’agire in automatico scontato che non la gioia di un panorama che si spalanca davanti a noi. È un procedere a tentoni, come indicava Freinet, al buio, non sapendo se l’incontro che potremo fare sarà per andare avanti insieme o per ritrovarsi un po’ più soli; se sarà con un cane, o con un lupo. E si impara a discernere. Non è poca cosa. E si apprende la giusta intransigenza, sempre aperta al dubbio e alla rielaborazione“.
Che ruolo gioca invece la Casa Famiglia promossa dall’Apg23 all’interno della nostra società contemporanea, con particolare riferimento alla situazione italiana?
“Un ruolo in qualche modo sovversivo. Propone, nei fatti, un modo di vivere che rompe tanti tabù. Sono i tabù che vengono proposti da quello stile di vita che possiamo chiamare del capitalismo impaziente e frettoloso. Nel capitalismo impaziente e frettoloso, essere come gli altri e con gli altri, è essere nessuno. Ciascuno sente di dover diventare qualcuno, distinguendosi con ogni mezzo, e non certo esclusivamente con una competenza. Questo rende ambiguo il merito, che diventa il merito di distinguersi. Si accompagna con il capitalismo delle relazioni, che devono essere altrettanto impazienti e frettolose. Possono rivelarsi, nel tempo, mafiose, corrotte; ma intanto hanno realizzato e forse trasferito altrove.
Bisogna, accanto a questa rottura dei tabù, stare attenti a non crearsi dei totem. Se una Casa Famiglia venisse letta come una realtà fatta da persone eccezionali, straordinarie, sarebbe un totem. In una Casa Famiglia ci sono persone con difetti. Poter sbagliare e correggersi, o essere corretti da chi ci sta accanto. È un errore fecondo.
Questo permette di definire alcuni aspetti che possono costituire i valori fondamentali di un accompagnamento verso l’età adulta di soggetti con bisogni speciali.
Ma è bene premettere alcune considerazioni.
Giustamente si parla di «transizione». Françoise Dolto aveva utilizzato l’espressione «sindrome dell’aragosta» per indicare una fase della vita adolescenziale caratterizzata dalla perdita di un guscio protettivo, nell’attesa di formarne uno nuovo. Con quell’immagine intendeva indicare un difficile periodo di transizione che chi cresce vive nella paura: di non avere difese (il guscio «infantile» è caduto; il guscio «adulto» non c’è ancora…), di ogni nuova proposta, scambiando un’ombra per un pericolo imminente; di ogni incontro, perché ognuno potrebbe essere travestito da amico ma essere un pericoloso concorrente… A volte abbiamo l’impressione che chi cresce avendo bisogni speciali non possa vivere le evoluzioni contraddittorie proprie di chi sta crescendo, prigioniero come sovente è di un ruolo infantile che a un certo punto sarebbe costretto ad abbandonare per trasferirsi di botto in un ruolo adulto. La «transizione» deve poter essere un periodo di «prove», che altro non sarebbero che l’accompagnamento nel percorso di «mutazione» (tra un guscio perduto e un altro che ancora non c’è), per garantirne le possibili incertezze, dubbi, tentativi anche senza seguito. In particolare, il rischio di chi ha una situazione speciale è quello che il minimo errore, che nella normalità della crescita sarebbe considerato come del tutto naturale, diventi la condanna che imprigiona nello stereotipo dell’handicappato, dell’incapace cronico, nei cui confronti si è benevolmente condiscendenti, o severi nel rifiuto. Se un soggetto con bisogni speciali non può sbagliare, è facilmente indotto a considerarsi vittima incompreso, ed a mettere in moto una certa strategia per vivere nel vittimismo e nell’assistenzialismo”.
Un tempo, in anni non così lontani, nelle famiglie c’era posto per tutti: genitori, figli, zii, nonni. Non solo chi era sano vi “stava dentro”, ma anche i figli più sfortunati, gli zii “matti”, i nonni “svaniti”, qualche fratello down… ognuno aveva una sua collocazione, un ruolo, seppur limitato dai propri limiti fisici e psichici e la famiglia si faceva carico di tutti loro. Poi nel tempo le famiglie si sono smembrate, ciascuno ha cercato la sua autonomia, e la tendenza è stata quella di uscire dall’unica casa per farsi, ciascuno la sua, e condurre la sua vita in autonomia. La Casa Famiglia dell’Apg23 è un ritorno a quella dimensione naturale di famiglia allargata o è qualcosa d’altro?
“Non è un ritorno nostalgico, una restaurazione. È piuttosto un andare avanti. Verso una società più solidale e capace di tenere insieme le diverse generazioni”.
Riccardo Belotti