All’Opera di Roma le immagini dell’artista cinese dissidente Ai Weiwei contrappuntano la lettura di Turandot dell’ucraina Oksana Lyniv
ROMA, 30 marzo 2022 – Come tutte le favole, Turandot si presta a letture che trascendono il tempo. Chiamato ad allestire per il Teatro dell’Opera di Roma il ‘dramma lirico’ lasciato incompiuto da Puccini (uno spettacolo già in programma nel 2020 e due volte rinviato per la pandemia), Ai Weiwei firma regia, scene, costumi e video che contrappuntano la vicenda della principessa crudele ideata nel settecento da Carlo Gozzi. Nel progetto visivo dell’artista cinese dissidente, noto a livello planetario, a evocare la fiaba sono soprattutto costumi variopinti e materici: il ragno che Turandot ha sulla testa, il gigantesco rospo che il principe Calaf porta sulle spalle, così come gli inequivocabili simboli di guerra sui copricapi delle tre maschere Ping, Pong e Pang. In palcoscenico, dei ruderi richiamano una Roma astratta e concettuale: non solo luogo che ospita lo spettacolo, ma soprattutto città gravida di storia e capitale di una civiltà che oggi stenta a trovare una bussola. Sono però i video proiettati e che scorrono ininterrottamente sul fondale a dare la temperatura drammatica di questa Turandot, con le loro terribili sequenze – talvolta durissime – che rimandano a un presente mai apparso così angoscioso come quello attuale. Si rincorrono riprese di metropoli disumanizzanti, immensi raccordi stradali, dolorose immagini della pandemia, la brutale repressione di Hong Kong, filmati di bombardamenti e delle loro macerie, folle di profughi in fuga dai teatri di guerra, in un tragico groviglio che accomuna il Mediterraneo all’Ucraina. Altrettanto inquietante il tripudio dell’oro, spia di una fedeltà ai regimi ricompensata attraverso la ricchezza, mentre la Pietà di Michelangelo e i vasi attici con le silhouette dei guerrieri sembrano ricordarci come l’umanità, nei secoli, non sia stata capace di fare grandi passi in avanti.
L’aspetto visuale non avrebbe comunque innescato un impatto emotivo altrettanto forte se non avesse trovato una sponda ideale nella lettura di Oksana Lyniv. Sempre ben corrisposta dall’Orchestra del Teatro dell’Opera, la giovane direttrice, oggi in prima linea in difesa dell’Ucraina (ha inviato una lettera aperta a Putin in cui difende con forza l’autonomia del suo paese), si è concentrata principalmente sul versante sinfonico di Turandot. Innanzi tutto, la disposizione delle percussioni nei palchi del primo ordine le ha permesso di valorizzare la ricchissima timbrica pucciniana; poi, il suo gesto molto preciso è diventato lo strumento per esaltare la componente ritmica, quasi barbarica, della partitura. È facile, del resto, scorgervi più di un’analogia con Stravinskij e Bartók, che Puccini – formidabile orchestratore – aveva di sicuro ben presente nel 1920, quando iniziò a concepire il progetto di Turandot. Una lettura asciutta, che ha operato anche una provvidenziale disincrostazione di tanta retorica veicolata da una certa idea, spesso distorta, di cantabilità all’italiana (basterebbe pensare al personaggio di Calaf e all’insopportabile banalizzazione della sua celeberrima aria fatta da scadenti pseudotenori quando intonano Vincerò). In quest’ottica si giustifica anche la conclusione nel punto in cui si è interrotta la scrittura di Puccini (il compositore morì nel 1924 prima di portare a termine l’opera), senza ricorrere al completamento realizzato da Franco Alfano: il sacrificio di Liù, seguito dalla disperata trenodia del vecchio Timur, non fa così che acuire lo strazio e il senso generale di tragedia.
Certo, un po’ di più ci si poteva aspettare dagli interpreti vocali. A parte la luminosa eccezione di Francesca Dotto, che ha disegnato una Liù intensa e musicalissima grazie a una bella voce da soprano lirico, tutti avevano qualche problema. A cominciare dalla protagonista, l’ucraina Oksana Dyka, apparsa sottodimensionata per un ruolo così pesante: ha inevitabilmente forzato, con tensioni eccessive in acuto. Michael Fabiano è stato un Calaf fiacco e poco incisivo. Convincenti interpreti presi singolarmente, e meno efficaci invece come resa d’insieme, sono apparsi Alessio Verna, Enrico Iviglia e Pietro Picone nelle vesti delle tre maschere. Antonio Di Matteo ha saputo imprimere a Timur accenti di autentico dolore; apprezzabile il Mandarino di Andrii Ganchuk, baritono ucraino ormai tra i cantanti di riferimento del Teatro dell’Opera. Da ricordare infine il tenore Rodrigo Ortiz, l’imperatore Altoum, i cui interventi erano sottolineati da mirabolanti ingranaggi d’oro. Un modo di rappresentare il potere che forse ricorda qualcosa…
Giulia Vannoni