Mauro Carioni, 52 anni, originario di Trescore Cremasco (CR), membro della Comunità Papa Giovanni XXIII dal 1982, educatore professionale, è sposato con Lodovica dal 1993 e ha 4 figli. È responsabile di una Casa Famiglia ed impegnato in particolare sulle tematiche relative al riconoscimento giuridico delle Case Famiglia come presidi socio-assistenziali. Lo abbiamo intervistato in preparazione al convegno “Una famiglia per tutti. L’esperienza delle Case Famiglia fondate da don Oreste Benzi a 40 anni dalla prima apertura”, che si terrà a Rimini il 31 maggio presso il Nuovo Quartiere Fieristico.
Mauro Carioni, cos’è una Casa Famiglia?
“La Casa Famiglia è, tecnicamente, un presidio socio assistenziale. Il nome completo è «Casa famiglia multiutenza complementare»: «famiglia» perché si basa su una coppia di genitori, padre e madre, (o due figure che svolgono questo ruolo) che accolgono, oltre ai figli naturali, anche figli rigenerati nell’amore; «multiutenza” perché accoglie persone con difficoltà diverse: ragazze madri, pazienti psichiatrici, disabili, anziani, ex prostitute, etc.; «complementare» perché si fa posto al nuovo venuto solo se non si danneggia chi già c’è. A livello burocratico, il concetto che fa più fatica a passare è proprio la «multiutenza». Si parla tanto di diversità come ricchezza, ma quando poi accogliamo in una Casa Famiglia un disabile, un anziano, un bambino, un immigrato, questa diversità «spaventa» chi ci deve accreditare. L’idea di don Oreste, quando nel lontano 1973 ha dato il via a questa iniziativa, era quella di ricreare una vera famiglia ma allargata, sul modello familiare del secolo scorso”.
La riforma del Titolo 5 della Costituzione del 1998 ha fatto sì che la materia socio assistenziale fosse di primaria competenza delle Regioni. Così ogni Regione ha deliberato requisiti e parametri ampi e diversi per riconoscere le strutture socio assistenziali, come la Casa Famiglia. Come vi confrontate con questo quadro?
“La Comunità rivendica la qualità e l’efficacia dell’impostazione assistenziale della Casa Famiglia perché non si basa sull’affermazione del buonismo del singolo, ma si tratta di una sfida vera e propria portata all’Ente pubblico, che si può fare accoglienza secondo canoni diversi da quelli «classici». Ci può cioè essere un presidio socio assistenziale che risponda agli standard e ai requisiti di qualsiasi presidio ma con le caratteristiche e l’impostazione della Casa Famiglia che riunisce in sé in maniera dinamica sia tutto ciò che è professionale ed educativo, sia il tipico lavoro di cura che viene fatto in una famiglia”.
Si dice che la Comunità Papa Giovanni accolga tutti: ma come funziona l’ingresso in una Casa Famiglia?
“Le Case Famiglia sono multiutenza, ma accolgono se sono capaci di rispondere a quello specifico bisogno e se la nuova accoglienza non va a creare danno a chi è già in Casa. In linea di principio accogliamo tutti: ma cerchiamo naturalmente di mettere assieme persone che possono convivere. Per esempio non mettiamo assieme due mamme di etnie diverse, perché avendo due stili educativi diversi la situazione in casa diventerebbe esplosiva”.
Come rispondono le Regioni alla presenza sul territorio della Casa Famiglia?
“Dipende molto dai singoli funzionari: se sono sensibili, si mettono in discussione, valutano con serenità; altrimenti il riconoscimento non passa. È anche un problema di numeri: se in Emilia-Romagna ci sono 70 Case Famiglia è chiaro che il confronto diventa possibile” <+cors>(complessivamente ce ne sono 210 in Italia e altre 40 nel mondo, ndr.).
Qual è la mappa del riconoscimento in Italia?
“Nel nostro Paese stiamo osservando una lenta crescita: nel 1991 la Casa Famiglia è stata riconosciuta in Emilia-Romagna; nel 1993 in Piemonte; nel 1999 in Veneto; nel 2002 nelle Marche. Nel 2009, invece, in Toscana abbiamo iniziato la sperimentazione. Gli accolti oggi sono oltre 2500. Le normative sono più o meno simili: nelle Marche e in Veneto, per esempio, la Regione accetta che sia l’Ente Gestore della Casa Famiglia a certificare e garantire per la formazione delle persone che dirigono la Casa Famiglia; in Emilia-Romagna invece la «certificazione’»avviene da un Ente terzo. Ovviamente non si tratta di leggi ad personam per l’Apg23: tutti possono aprire una Casa Famiglia come la intendiamo noi, basta che ci siano i requisiti”.
Qual è il punto chiave per ottenere il riconoscimento?
“Il vero nodo è la multiutenza: su questa incontriamo veramente tanta rigidità, perché pensano che il nostro modello, sulla carta, non possa funzionare. Beninteso: noi non chiediamo soldi o convenzioni, ma solo di poter esistere. Dal punto di vista strettamente giuridico non ci potrà essere un riconoscimento della Casa Famiglia a livello nazionale, in virtù della delega alle Regioni. Ci potrebbe essere un «atto di indirizzo» da parte della Confererenza Stato-Regioni (presieduta da Vasco Errani, che è stato invitato al Convegno, ndr.) che accrediti come «valido» il modello della Casa Famiglia Multiutenza Complementare, e che inviti le Regioni e prenderne atto, anche se come «atto di indirizzo», in quanto tale, non è vincolante”.
Qual è il ruolo delle Case Famiglia dell’Apg23 in una situazione nella quale lo Stato Sociale è stato praticamente smantellato?
“Credo sia un ruolo molto importante, e anche riconosciuto. Faccio un esempio. Ci sono comunità di accoglienza che, al raggiungimento dei 18 anni, mettono alla porta la persona accolta perché poi più nessuno paga per lei. Invece noi la prendiamo perché non mandiamo a casa nessuno. In un panorama nazionale dove i bisogni sono tanti, lo Stato ha interesse ad avere vicino le Case Famiglia dell’Apg23 perché risolviamo problemi, e poco importa se ancora in quella Regione non siamo ancora riconosciuti e quindi operiamo, per così dire, «abusivamente». Possono multarci, potrebbero anche farci chiudere, cosa in sé e per sé giusta: ma noi facciamo questo lavoro alla luce del sole, chiediamo il riconoscimento, apriamo tavoli di confronto, dialoghiamo con assessori e dirigenti fin dal 1992, quando ho iniziato a seguire questo servizio”.
Qual è il valore aggiunto che può avere la “rete” che collega le diverse Case Famiglia tra di loro?
“L’accoglienza delle persone non si improvvisa: è frutto di una scelta vocazionale, ma poi ci si educa, si cresce e questo è possibile perché i pesi vengono condivisi, perché ci si confronta. Le figure genitoriali di una Casa Famiglia non sono sole, ma condividono le loro fatiche con altri genitori. La singola Casa Famiglia da sola annegherebbe: cosa che non può accadere perché l’unica famiglia Comunità Papa Giovanni XXIII è garanzia di supervisione, di accompagnamento, di assunzione di responsabilità, di intervento”.
Come fa la Comunità a verificare le capacità dei responsabili delle Case Famiglia?
“I piani sono due. In primis c’è una scelta vocazionale e tanti strumenti perché questa scelta sia sempre al meglio: incontri, verifiche, opportunità, dalla preghiera al padre spirituale. Poi c’è il piano tecnico professionale: abbiamo persone qualificate tecnicamente che fanno supervisione, ci sono incontri di formazione, si affrontano tematiche in via ordinaria. E poi ci sono gli Enti che ci affidano le persone che continuano, ovviamente, a seguire i singoli casi. Il controllo e la verifica sono quindi all’ordine del giorno. Poi gli errori ci possono sempre stare: non siamo infallibili”.
Quale risultato la Comunità vorrebbe dal convegno sulle case famiglia?
“L’optimum sarebbe se gli alti funzionari delle Regioni, dopo il convegno, avessero minor diffidenza nei confronti delle Case Famiglia; meglio ancora, naturalmente, se ci riconoscessero. Ripeto: il punto nodale è la multiutenza, perché si preferisce mettere in una stessa struttura dieci ragazzini sbandati e violenti piuttosto che immaginare una piccola comunità famigliare dove persone con problematiche diverse possano stare insieme e ciascuno abbia l’opportunità di rimettersi in gioco”.
Perché continuate a combattere per questo riconoscimento?
“La Casa Famiglia può essere, per la società, un fermento che costruisce umanità, che dà vita a «cieli nuovi e terra nuova», dove regna la giustizia di Dio. Se siamo capaci come membri di Comunità ad attuare fino in fondo la chiamata alla condivisione, potremo veramente costruire il paradiso. Dal punto di vista storico, può essere il ritorno alla famiglia stile Albero degli zoccoli, dall’altro invece è una sfida alla standardizzazione delle risposte dello Stato ai bisogni del cittadino. La Casa Famiglia è «profezia» perché parte da quella realtà rivoluzionaria che è la famiglia: se non è sana, ogni famiglia diventa un ricettacolo di problemi; se invece costruisci un ambiente famigliare sano, nel senso pieno del termine, alle persone accolte è ridata una prospettiva di vita diversa e migliore”.
Riccardo Belotti