Al Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno l’estremo capolavoro verdiano in un riuscito spettacolo firmato da Roberto Catalano
ASCOLI PICENO, 14 febbraio 2019 – Fare squadra è una di quelle espressioni che in Italia sembrano indeclinabili: ognuno si regola come crede, tanto più per le programmazioni musicali. A consorziarsi e costruire un’efficace sinergia – aggregando pure altre realtà locali – ci sono invece riuscite Fano, Ascoli Piceno e Fermo: tre città cariche di memorie storiche, tutte dotate di magnifiche sale teatrali. Con Il trovatore, lo scorso ottobre, è definitivamente decollata la Rete Lirica delle Marche: a distanza di poco più di un mese è toccato a Così fan tutte e adesso sta andando in scena Falstaff. La formula prevede che gli spettacoli in cartellone girino sui tre palcoscenici con due recite (lodevolmente, la prima è riservata alle scuole), ma questo non impedisce che vengano esportati anche in altre località al di fuori del circuito marchigiano.
Ultimo titolo, dunque, l’estremo capolavoro di Verdi, che ha effettuato la sua seconda tappa nella magnifica sala del Ventidio Basso: da sottolineare che una città di piccole dimensioni come Ascoli possiede ben due teatri storici! Lo spettacolo, proveniente da Como, è apparso ben leggibile sul piano visivo. La duttile scatola scenica elaborata da Emanuele Sinisi, pur rimanendo pressoché immutata, consente di delineare facilmente le cornici dei diversi quadri configurati nello splendido libretto di Boito: dall’osteria della Giarrettiera – rappresentata da un tavolo da biliardo attorno al quale si trastullano Falstaff e i suoi sodali Bardolfo e Pistola – alla quercia di Herne.
Per il regista Roberto Catalano, Sir John è un personaggio destabilizzante nei confronti del conformismo borghese: un perdigiorno che, benché non abbia saputo cogliere le occasioni (lo sottolinea un trenino che solca più volte il palcoscenico, ma del suo passaggio il protagonista si accorge sempre troppo tardi), non sembra preoccuparsene troppo, preferendo oziare. E l’essenza del protagonista si materializza in modo ancor più esplicito quando, dopo essere stato scaricato nel Tamigi, si sdraia in un letto che poggia su un cumulo di giocattoli rotti, del tutto inservibili. Borghesissime invece le comari – dedite, sopra ogni cosa, alla manutenzione del loro fisico – che fanno da cornice a un rampante Ford, il cui comportamento, da assiduo frequentatore del circolo tennistico, sembra modellato solo sulle convenzioni sociali.
Falstaff però si gioca soprattutto sul versante musicale. In una lettura tesa a privilegiare la pulizia del suono e a valorizzare la raffinatezza dell’orchestrazione verdiana, il direttore Francesco Cilluffo ha ottenuto corrette sonorità dall’Orchestra Sinfonica Rossini di Pesaro, senza mai coprire i cantanti e prestando attenzione all’appiombo ritmico, più che mai necessario in un’opera dove abbondano le insidie contrappuntistiche.
Nell’affiatato cast, tutti convincenti attori: personaggi ben valorizzati anche per merito dei moderni costumi di Ilaria Ariemme che ne marcano le caratteristiche. Il monumentale baritono georgiano Misha Kiria è apparso un credibile protagonista: con un patetico abbigliamento da attempato fricchettone, presumibilmente sopravvissuto a glorie sessantottine (esilarante il suo Vado a farmi bello), ha dimostrato un buon controllo vocale, compresa la spiritosa gestione dei falsetti. Di voce poco rotonda, Paolo Ingrasciotta è stato un Ford a suo agio nelle parti cantabili e più fioco in quelle declamatorie; mentre sua moglie Alice, interpretata da Sarah Tisba, ha compensato con una grande disinvoltura in palcoscenico un’emissione non sempre omogenea. Ben a fuoco la Meg di Giuseppina Piunti; dotata di charme, e non la solita comare petulante, Daniela Innamorati: un’efficace Quickly, seppur priva di autentici affondi contraltili. Molto riuscita la coppia formata da Nannetta e Fenton: lei, Maria Laura Iacobellis, sempre sicura e precisa, mentre Matteo Roma possiede una caratura persino superiore a quella del consueto tenore di grazia. Di Ugo Tarquini si potevano dimenticare i limiti vocali, perché il suo Cajus è davvero spiritoso; apprezzabili il Bardolfo di Simone Lollobattista e il Pistola di Pietro Toscano. La migliore dimostrazione che il gioco di squadra all’opera funziona.
Giulia Vannoni