Nel 1700 le scritture degli autori sulle Epigrafi e collezioni di antichità risultano un intreccio controverso di opinioni che sembra ancora oggi inestricabile. Stando alle conoscenze dell’epoca è meglio considerare le argomentazioni come opinioni erudite, storico-letterarie interpretative più da collezionisti che da studiosi di archeologia, opinioni variegate e discordanti tra loro. La vasta letteratura sulle iscrizioni lapidee riminesi nei due secoli 1700 e 1800, unita all’abbondanza di opinioni divergenti inducono a considerazioni prudenti sull’argomento. Va tenuto presente che gli eruditi che si occuparono delle iscrizioni lapidee, con la maggior parte delle lapidi provenienti da necropoli, non di rado unirono alla libera interpretazione la propria fantasia. Si accesero discussioni vivaci e appassionate. Nelle diatribe di eruditi collezionisti dell’epoca spesso prevalse la polemica più che l’obiettivo della ricerca storica o epistemica. Va altresì tenuto in considerazione che in quel periodo storico non c’erano né le conoscenze, né gli attuali strumenti della disciplina archeologica.
Antichità,
non archeologia
Nel secolo XVIII non esisteva l’archeologia ma un diffuso collezionismo di cose antiche (lapidi con iscrizioni, oggetti, medaglie, monete, reperti, ecc…), che portavano ad appassionanti discussioni nei giornali letterari, nei salotti e nei caffè. Il collezionismo era da intendersi in senso ampio, alle cose antiche si univano reperti naturali, come ebbe a scrivere Giovanni Bianchi medico riminese: “Il Padre Don Alessandro Giuseppe Chiappino Piacentino, Abate Generale dell’Ordine dei Canonici Lateranensi, uomo dotto ed erudito, che possiede una bella raccolta in Piacenza di cose spettanti all’Antichità, e alla Storia Naturale”. Entrano nelle collezioni anche i reperti in laterizio, sempre Bianchi in altra lettera, nelle Novelle Letterarie di Giovanni Lami (tomo VIIII, 1748), raccontò di una figliana a lui donata da Domenico Giorgetti ritrovata nel monte di Covignano. Nell’area medio-adriatica c’è grande diffusione di Figliane come la Pansiana, comune nella fascia che va dalle Marche alla Croazia, ha restituito una vasta area di diffusione dei bolli di fabbricazione. Embrici marchiati ed attribuiti da alcuni studiosi all’epoca Imperiale.
Tra il 1700 e il 1800 era in voga collezionare antichità, oggetti antichi o considerati antichi, numerose cronache e pubblicazioni riportano notizie a dimostrazione che era comune. Ci si scambiava opinioni sulle lapidi con iscrizioni accompagnate da un continuo e vivace dibattito sul ritrovamento e sulle origini, il significato delle iscrizioni e loro interpretazioni. Fu un intreccio inestricabile di opinioni molteplici su origini e attribuzioni. Sull’argomento si sa di certo che ognuno profuse grandi sforzi per affermare le proprie opinioni, le proprie ragioni. Molti non si risparmiarono nel dare inconsistenti notizie sui luoghi dei ritrovamenti e controverse interpretazioni delle iscrizioni. Nella Rimini del 1700 tra i collezionisti figurano Gian Battista Gervasoni, Giovanni Cristofano Amaduzzi, Giovanni Bianchi (Iano Planco), Francesco e Giuseppe Garampi, questi sono alcuni dei nomi che Luigi Tonini indicò nella Storia di Rimini (pag. 287). Domenico Paulucci (o Paolucci) annovera tra i collezionisti L’Anonimo (conosciuto con il titolo Rigazziano), Sebastiano Bovio de Gherardi, Cesare Clementini, monsig. Giacomo Villani, Giuseppe Malatesta Garuffi, Tommaso Temanza. A questi nominativi vanno aggiunti il conte Federico Sartoni, l’abate Giuseppe Vitali, Paolo Garattoni e altri se ne potrebbero aggiungere stando alla disamina sulle lapidi di Luigi Tonini in appendice di Rimini avanti il principio dell’era volgare.
Planco incontrò Winckelman
Ad alcuni scritti di Planco, appassionato collezionista, databili intorno al 1748 di recente si è attribuito il termine: “scritti archeologici”. Ma il termine “archeologici” non è appropriato visto che a quella data non esisteva alcuna disciplina archeologica. Le antichità erano anche le “rovine” rappresentate in incisioni e quadri, una moda artistica in cui le scene di passeggiate di nobili e borghesi o altro venivano contornate con l’iconografia relativa ai reperti architettonici, veri o inventati che fossero. La passione per le antichità non fu propriamente archeologia neanche dopo Johann Joachim Winckelman che Bianchi ebbe occasione di incontrare. “Bianchi nel 1766 compie con Epifanio Brunelli un tour a Loreto, Assisi, Perugia, Todi, Roma, Napoli, Siena, Firenze e Bologna. L’anno successivo, proprio sulle Novelle, Giovanni Cristofano Amaduzzi, altro celebre ex alunno di Bianchi ricorda l’incontro avuto in Roma con l’abate Johann Joachim Winckelman, in compagnia dello stesso Planco e di Epifanio Brunelli”. (A. Montanari, Lettori di provincia nel settecento romagnolo, Riministoria, lettori.676.html. revisione 28 settembre 2003. Versione al 26.05.2009).
Solo nel secolo successivo, il XIX, e con molta lentezza la nascente archeologia iniziò a diventare una disciplina, dopo una infinita serie di approssimazioni ed errori. L’interesse per le antichità, nella maggior parte dei casi, andrebbe ricondotta ai vezzi da eruditi e da studiosi in cui si cimentarono religiosi, nobili, borghesi, frequentatori di caffè, di accademie e circoli letterari che si appassionavano al collezionismo. Siccome è risaputo che studiosi e collezionisti non sono la stessa cosa, si alimentarono vezzi e fantasiose interpretazioni ricche di capricciose, vacue idee sulla storia degli oggetti antichi a cui molti tra nobili, borghesi e appartenenti al clero non si sottrassero.
Planco
e la “Rotonda”
Planco non venne meno: “Sono frequenti nelle memorie di viaggio di Bianchi (Giovanni, ndr)annotazioni dedicate a chiese, palazzi e monumenti, annotazioni che si caratterizzano per la mancanza di partecipazione emotiva da parte dell’erudito, che alla realtà artistica si accostava sostanzialmente in ragione di un interesse eminentemente conoscitivo ed erudito. Decisamente diverso era invece l’atteggiamento manifestato da Bianchi a Ravenna… In particolare, il monumento ravennate che evidentemente più di tutti attirava l’attenzione del riminese a Ravenna era la Rotonda, vale a dire il mausoleo di Teodorico, opera scrupolosamente descritta nelle sue pagine di diario e che l’erudito riteneva opera romana e non gotica, come era invece opinione largamente condivisa. E sono infatti diversi i momenti in cui Bianchi si intrattiene con vari notabili parlando della Rotonda, momenti come quelli che lo vedevano in compagnia del padre abate Pier Paolo Ginanni. Significativo è un simile interesse del riminese per il mausoleo di Teodorico, optando per la romanità del quale egli si inseriva a pieno titolo nella disputa che avrebbe appassionato gli eruditi ravennati tra il 1766 e il 1768, la discussione circa la romanitào goticità del monumento in questione”. (I viaggi di Giovanni Bianchi dal 1755 al 1763, Edizioni CISVA 2007).
Winkelmann, Planco, l’arco di Augusto
Le approssimazioni di Iano Planco in materia di antichità erano note a molti studiosi e toccarono anche l’Arco di Augusto, in una lettera del 5 dicembre 1739 allo studioso, antiquario, etruscologo Anton Francesco Gori (1691-1757), scriveva: “Questi nostri avvanzi di antichità, e specialmente il famoso arco di Augusto, gli dissi così per incidenza che c’erano alcune cose contrarie a ciò che insegna Vitruvio”. Molti anni dopo fu l’autorevole Winkelman nel suo testo Storia delle arti del disegno presso gli antichi(edizione italiana, Paglierini 1784) che affianca l’opinione di Planco e a p. 215 scriveva: “Quasi tutte le fabbriche dal tempo d’Augusto, che restano in piedi, sono disarmoniche. All’arco di Rimini non corrispondono le colonne colla larghezza dell’arco fiancheggiato da quelle”. Le approssimazioni di Planco non risparmiarono le epigrafi, erano note agli studiosi per la loro pubblicazione nelle Novelle di Giovanni Lami. Non mancarono le accese discussioni letterarie anche sulla “distrazione” di Planco: “Nella seconda, in riferimento (anonimo) ad altro testo planchiano apparso sulle Novelle del 1748 (IX, n. 51, 29 novembre, coll. 801-807), si dichiarava (cfr. Storia letteraria d’Italia, I, p. 300) che «un Medico, a cui è saltato in capo di far da antiquario», aveva stampato i due pezzi di un’iscrizione, non accorgendosi «che andavano uniti, e formavano una sola lapida». (Zaccaria cita da col. 803 delle Novelle). Il dottor Bianchi si difese sostenendo che i migliori studiosi d’Antiquaria erano stati proprio dei medici come lui (cfr. nelle cit. Novelle, tomo XIII, n. 23, col. 362)”.
(A.Montanari, Accademia dei Lincei riminesi. Francesco Antonio Zaccaria. http://digilander.libero.it/montanariantonio/lincei/889.zaccaria.html).
Loreto Giovannone
(1. continua)