Andata in scena al Teatro Galli di Rimini per la stagione lirica Turandot, opera testamentaria di Giacomo Puccini
RIMINI, 5 aprile 2024 – È inutile chiedersi come sarebbe stata Turandot se Puccini l’avesse portata a termine: bisogna fare i conti con quello che c’è, compreso l’epilogo messo in musica da Franco Alfano. La “principessa di gelo” resta un enigma, e spesso viene il dubbio che l’opera sia rimasta incompiuta non solo a causa della malattia, e poi della morte, del suo autore: forse per una sorta di rinuncia da parte di Puccini a musicare una conclusione che – se non proprio consolatoria – ribadisce quanto meno l’affermazione dell’amore.
D’altronde il compositore lucchese, con il suo formidabile intuito nell’interpretare i segnali del tempo, si era reso conto che – agli inizi del secolo breve – l’espressione amor vincit omnia aveva perso il suo significato più profondo. Dietro questa rinuncia si può scorgere, in modo neanche troppo velato, anche la consapevolezza del declino di un genere, quello operistico, che nel novecento muterà completamente di segno. E che, per molti, è tramontato definitivamente proprio insieme a Puccini.
A un secolo esatto dalla morte del compositore, questa sua incompiuta dal valore testamentario ha inaugurato la stagione lirica del Teatro Galli con un allestimento frutto di una coproduzione con Modena, Piacenza e Ravenna. Lo spettacolo di Giuseppe Frigeni, che firma regia, scene, coreografie e luci – i bei costumi sono invece di Amélie Haas – è nato nel 2003 e a riprenderlo, adesso, è stata Marina Frigeni. Una cornice molto elegante a vedersi, dove affiorano echi di un Oriente mentale, in cui prevalgono il bianco, il nero e le sfumature del grigio, ravvivati dal sapiente uso di luci colorate che illuminano il palco ogni volta che quinte mobili scorrono sulla parete di fondo. La scena resta sostanzialmente immutata nei tre atti: una scalinata al centro, dove all’inizio sono collocate le teste dei pretendenti di Turandot decapitati, e che poi ospiterà le acrobazie di Ping, Pang e Pong. La trovata più suggestiva riguarda il finale e sottolinea come, appunto, lo “sgelamento” nel terzo atto non coincida con l’affermazione dell’amore. Semmai, con la rassegnazione: dopo che Calaf ha portato via a Turandot il suo mantello da principessa, lei si sdraia – prona – sopra il cadavere di Liù, rimasto sempre in scena dal momento della sua morte. È il doloroso legame che accomuna la sorte di due donne sconfitte, seppure per motivi diversi.
Alla guida dell’Orchestra Arturo Toscanini, Marco Guidarini – pur non riuscendo a dosare sempre al meglio i volumi, soprattutto in concomitanza degli interventi corali – ha ben valorizzato le numerose sollecitazioni della partitura, frutto dell’acuto sguardo di Puccini sulle novità: dalle soluzioni armoniche di Debussy agli echi sottotraccia che rimandano a Stravinskij o, restando in ambito italiano, a Casella, il più internazionale fra i nostri compositori.
Il direttore ha sempre ben sostenuto le linee vocali, ma purtroppo la protagonista France Dariz non è riuscita a giovarsene: il soprano francese ha faticato a imprimere stabilità al suono, soprattutto nelle ascese in acuto, senza che tali difficoltà venissero compensate dall’espressività. Particolarmente a suo agio nel registro centrale, dove ha sfoggiato solidi mezzi, il tenore georgiano Mikheil Sheshaberidze è stato un Calaf insolitamente distaccato, in accordo con i desiderata registici: atteso dal pubblico al varco del Nessun dorma, non si è lasciato tentare da effetti facili per strappare l’applauso ed è riuscito a imprimere anche apprezzabili sfumature al suo canto. Dotata di una dignità quasi regale, il soprano argentino Jaquelina Livieri ha interpretato un’impeccabile Liù, emozionante soprattutto in Tu che di gel sei cinta. Molto ben definiti i tre ministri, a cominciare dal baritono Fabio Previati, un Ping sempre sonoro, ben supportato dal Pang di Saverio Pugliese e dal Pong di Matteo Mezzaro. Il veterano Giacomo Prestia ha affrontato il personaggio del vecchio Timur con accento nobile ed emissione scorrevole. Più aspro è apparso il tenore Raffaele Feo, come Altoum, mentre nel declamato del Mandarino si è fatto apprezzare il baritono Benjamin Cho. Valide le prove dei due cori: sia il Lirico di Modena e il Municipale di Piacenza diretti da Corrado Casati sia quello di voci bianche, sempre del Comunale di Modena, preparato da Paolo Gattolin.
Vivo successo di pubblico: sarà pur vero che per tanti melomani Turandot sancisce la fine del genere operistico, ma nello stesso tempo Puccini rappresenta per molti il suo apogeo.
Giulia Vannoni