Al Festival di Innsbruck un concerto dell’acclamata star russa Julia Lezhneva accompagnata dall’ensemble La Voce Strumentale
INNSBRUCK, 25 agosto 2019 – Ottimo controtenore, buon violinista, modesto concertatore. Dmitry Sinkovsky, che – alla guida del complesso russo La Voce Strumentale – ha accompagnato l’esibizione del soprano Julia Lezhneva, mostra un’ampia e variabile gamma di qualità musicali. Sono apparse notevoli le sue doti canore quando, seppure brevemente e fuori campo, ha duettato con la diva russa nel brano Zeffiretti che sussurrate (tratto da Ercole sul Termodonte di Vivaldi) creando suggestivi effetti di eco. Si è confermato anche un apprezzabile virtuoso di violino, aggredendo con determinazione i passaggi più impegnativi delle musiche proposte, mentre ha suscitato più di una perplessità la sua concertazione, scandita – oltre tutto – da un atteggiamento fin troppo istrionico. Un limite già evidente nel brano iniziale, il Concerto grosso in si bemolle maggiore per il Signor Pisendel di Telemann, dove il suono dei pur bravi colleghi strumentisti appariva poco compatto e rotondo, eccessivamente sbilanciato verso la componente percussiva, soprattutto per gli strumenti gravi. Un inconveniente che è tornato a ripresentarsi, pur se in misura minore, con Hasse (Adagio e fuga in sol minore) e nei due brani di Vivaldi, nonostante nel Concerto per liuto, due violini e basso continuo in re maggiore la bravura del solista svizzero Luca Pianca abbia arginato l’invasività sonora della piccola orchestra. Va anche detto che la Riesensaal dell’Hofburg è una cornice splendida dal punto di vista visivo, un po’ meno su quello acustico per l’inevitabile riverbero che spesso non favorisce l’impasto dei suoni.
L’interesse del pubblico, numerosissimo, era però concentrato soprattutto sull’esibizione della Lezhneva (il suo era uno dei concerti più attesi del Festival di Innsbruck): oggi fra le più acclamate star internazionali del barocco, pur avendo cantato pochissimo in Italia, dove se ne ricorda solo un suo passaggio al ROF di alcuni anni fa. Per valorizzare le sue doti di virtuosa, il soprano russo ha scelto pagine tratte da opere poco note: Porpora, Vivaldi, il tedesco Carl Heinrich Graun, e – solo a conclusione del concerto – Händel. Denominatore comune per tutti gli autori: la lingua italiana, come già si poteva presagire dalla scelta del titolo, La voce. Pur trattandosi di arie svincolate dal loro contesto drammatico, la Lezhneva ha sempre garantito una buona intelligibilità delle parole, riuscendo a sedurre l’ascoltatore attraverso suoni che fluiscono con estrema facilità e naturalezza, e ottenendo effetti – soprattutto nelle cadenze – che sembrano rivaleggiare con quelli di un usignolo meccanico. Di questo soprano colpiscono soprattutto la purezza del timbro e la lunghezza dei fiati: poco importa se nelle discese più gravi la voce corre il rischio di risuonare vuota e un po’ tirata in acuto.
In origine, un tale repertorio virtuosistico era appannaggio dei castrati: a noi resta il rimpianto di non aver potuto mai ascoltare le loro mirabolanti esecuzioni che, nel tempo, hanno alimentato vere e proprie leggende. È verosimile che Julia Lezhneva si avvicini abbastanza a quelle mitiche esibizioni: il soprano, del resto, punta tutto sulla capacità edonistica del canto, che sembra mandare in visibilio chi ascolta. L’entusiasmo che ha acceso nel pubblico tedesco è infatti prossimo al delirio. Un’accoglienza riservata anche al direttore, sebbene il suo eccessivo protagonismo sia assai meno condivisibile.
Giulia Vannoni