La rivolta, iniziata in Tunisia, le inquietudini che si sono manifestate poi in tutti i Paesi musulmani, dal piccolo Gibuti fino allo Yemen e all’Arabia Saudita, non si spiegano solo con la povertà, la disoccupazione, la corruzione o la crisi culturale del mondo islamico. Secondo il presidente della Cei cardinal Angelo Bagnasco: “Quando un popolo viene oppresso per troppo tempo da un regime che non rispetta i diritti umani, prima o poi scoppia”.
Cosa sta realmente accadendo nel mondo arabo? Se ne è parlato a Rimini, nell’incontro organizzato dal centro culturale Portico del Vasaio “Egitto, la sfida di un popolo”, con Khalil Samir (nella foto), gesuita nato in Egitto, docente di storia della cultura araba e di islamologia all’Università Saint Joseph di Beirut e al Pontificio Istituto Orientale di Roma.
Padre Khalil, partiamo dalla scintilla.
“Tutto è partito da un giovane diplomato tunisino che non trovava lavoro. Non si è arreso e, con i pochi soldi che aveva, ha comprato frutta e verdura ed è andato a venderla per strada. La polizia lo ha cacciato perché sprovvisto di permesso. Disperato, il ragazzo si è dato fuoco ed è morto. È considerato il primo martire della Tunisia. Per reazione, migliaia di giovani hanno spontaneamente preso a protestare. In tutto il mondo arabo il movimento è partito dai giovani ai quali si sono uniti gli intellettuali, sostenuti dalla popolazione”.
Cosa c’è dietro questo fatto?
“Nei paesi dove è scoppiata la rivolta e in quelli dove c’è fermento, i governanti monopolizzano la politica. È il caso dell’Egitto dove Mubarak governava da quasi trent’anni, e della Libia dove Ghedaffi è al potere da quarantadue anni. Non sono governi democratici, ma monopolizzano il potere per arricchirsi. Possiedono miliardi e questi soldi sono depositati in Occidente, principalmente in Europa.
La situazione del popolo è ben diversa. In Egitto su 84 milioni di individui, 30 milioni vivono con 1,5 euro al giorno a testa. Sempre più persone cercano cibo nelle discariche. Manca lavoro, soprattutto per i giovani. L’età media in Egitto è 30-31 anni. Tutti sono andati a scuola, molti all’università, ma non trovano lavoro.
Da anni è stata istituita una legge militare per garantire la sicurezza. I governi, in diversi Paesi, hanno introdotto un sistema di controllo senza essere loro stessi controllati. Un uomo sospettato viene messo in prigione dove subirà maltrattamenti di ogni tipo, ma tutto è vissuto come normale. La Tunisia è Stato più evoluto dell’Egitto, in termini di educazione e di apertura al mondo. Molti parlano una lingua straniera, eppure tutto è controllato: internet, telefoni personali di intellettuali e di chi potrebbe suscitare un movimento di idee. La situazione peggiore è in Libia: oggi vediamo chiaramente chi è Ghedaffi, dittatore al quale non interessa il popolo, ma che è pronto ad uccidere migliaia di persone pur di mantenere il potere. Dovremo piangere diversi morti per arrivare alla libertà voluta dal popolo. Ma la «primavera del mondo arabo» porta con sé un’aria di democrazia, di libertà che soffia ovunque.
Più difficile è raggiungere i paesi retti da un re (come Marocco, Giordania, Arabia Saudita) perché cercano di realizzare delle riforme in fretta per calmare il movimento. In Arabia Saudita il popolo ancora non si è svegliato. Ci sono personalità e donne formidabili, ma ciò non basta per creare un movimento; la tradizione dell’Imam pesa molto. Ma nel Golfo qualcosa si muove. Nel Bahrain, Paese per l’80% sciita, ma governato – da circa trent’anni – dall’emiro che è sunnita, è iniziato un dialogo con il popolo. C’è un desiderio di cambiamento”.
Come ha preso piede questa “rivoluzione”?
“Attraverso internet molte persone entrano in contatto con il mondo. Chi ha parenti in Europa si rende conto che anche il povero trova da mangiare e da dormire e quando è malato può essere ricoverato in ospedale; tutte possibilità che non esistono nel mondo arabo. Per questo molti rischiano la vita, con la speranza di vivere meglio.
Che cosa ne verrà fuori, Dio lo sa, noi lo speriamo. Speriamo siano condizioni migliori. Penso al movimento del blocco sovietico degli anni ’80, dove – uno dopo l’altro – i paesi si sono liberati per ottenere più libertà, più democrazia, più dignità, parità soprattutto per le donne e per i poveri”.
Quali condizioni sono necessarie per arrivare a qualcosa di nuovo?
“È un movimento di popolo. Il pericolo è che non esista una leadership e che un gruppo ben organizzato prenda il sopravvento. Ma è stato creato un governo provvisorio; l’esercito – che si era dichiarato contro il governo e aveva rifiutato di usare le armi – è stato incaricato di vegliare sulla sicurezza per arrivare alla riforma della costituzione e poi ad un governo di transizione. Proposte per la riforma della costituzione sono già state avanzate”.
Cosa contengono?
“La separazione tra politica e religione. È rigettato l’Islam esteriore, distante da un Islam che penetra nel cuore e cambia la vita. Si parla di sentimenti di affetto, di giustizia, di solidarietà, di parità”.
Quanto tempo richiederà questa trasformazione?
“Molto perché la formazione dell’imam è molto tradizionale. Nell’arabo egizio, per dire «imparare» si dice «ripetere». A colpi di bastone il bambino impara il Corano a memoria. Chi ha imparato migliaia di detti di Maometto può cominciare a pronunciare dei sermoni. Una tale formazione «formatta» il cervello delle persone. Per «liberare» l’imam che decide tutto in materia religiosa ci vorrà tempo. Io spero che la riforma arrivi a toccare anche la grande università di Al-Azhar dove si formano gli imam, ma ci vorranno decenni”.
Quale ruolo possono giocare i cristiani?
“Penso che sia un’occasione che il Signore ci offre per collaborare tutti insieme, musulmani e cristiani, uomini e donne, intellettuali e popolo, e tutte le classi della società, perché sia veramente una rivoluzione popolare pacifica. Dobbiamo costruire insieme.
Noi cristiani abbiamo un ruolo importante nella società perché siamo più sensibili ad aspetti quali i diritti umani, la libertà di coscienza, la giustizia. Dobbiamo ricostruire insieme. Vale per l’Egitto, e per il mondo arabo intero.
L’Europa può aiutarci a capire cosa c’è in questo movimento, a non avere una paura estrema dell’islamizzazione: è l’Islam intollerante è quello contro il quale vogliamo lottare. Dobbiamo affrontare il problema della distinzione tra poveri e ricchi, il problema dell’economia mondiale che crea questa ingiustizia. Bisogna impegnarsi per ridurre questa distanza e tendere davvero a quelle radici cristiane – che molti purtroppo negano – che potrebbero servire da modello.
Il mondo arabo guardava all’Europa come modello, soprattutto nell’800. Quando l’Egitto si è aperto al mondo, centinaia di persone sono volate in Francia, in Italia e nel resto d’Europa. Ma l’Europa ha perso molto del suo prestigio morale. Oggi il mondo arabo guarda all’Europa come una terra atea, specie per la sfera che tocca la sessualità. I matrimoni che si celebrano e si disfano, gli aborti, le relazioni libere: tutto questo per il mondo arabo è immagine del male.
È necessaria una ri-cristianizzazione, una nuova evangelizzazione dell’Europa, per ritrovare i valori. Se riusciremo a fare questo in Europa, e se in Egitto e nel mondo arabo riusciremo a creare più giustizia e a fare la stessa cosa, il dialogo sarà molto più fecondo”.
Letizia Rossi