Già nel primo incontro, nel lontano 1953, don Oreste mi conquistò con la sua spontanea, immediata cordialità, l’immancabile sorriso; mi accolse contento, festoso, come se avesse ritrovato un vecchio amico e ci eravamo, invece, appena conosciuti!
Diventato ben presto uno dei suoi collaboratori nell’animazione dei ragazzi, degli “Aspiranti” come venivano chiamati allora nell’Azione Cattolica, imparai a conoscerlo: affascinante con i giovani, capace di capire una persona a prima vista, totalmente disponibile, entusiasta, sapeva valorizzare in pieno chi operava con lui. Di sé dava tutto, ma chiedeva anche molto, con una fiducia che moltiplicava le doti di chi la riceveva; nel corso di una eventuale collaborazione non mancava d’incoraggiare, di pungolare, di pungere anche, se ce n’era bisogno, ma sempre in modo amabile e persuasivo. Le sue parole non erano mai di poco conto e manifestavano affetto e partecipazione; le proposte che avanzava risultavano semplici ma esigenti, miravano sempre a suscitare amore per il Signore e per chi aveva bisogno.
Una volta mi disse che il movimento “Aspiranti” di Azione Cattolica, promuovendo l’incontro con Cristo, offriva una ricchezza che nessun’altra organizzazione giovanile di allora era in grado di dare. Del resto, in lui si poteva cogliere intensamente vissuto questo incontro straordinario con la realtà divina: lo si avvertiva in modo speciale nelle prediche che, quando parlavano di Dio, “facevano ardere il cuore”.
Con chi operava con lui don Oreste sapeva essere fraterno, un vero amico, con il quale si lavorava sodo, ma anche in modo gioioso e con allegri momenti di divertimento; comunque accanto a lui si stava bene. Anche se non sempre le cose filavano lisce al cento per cento, come quando non si presentava puntuale agli appuntamenti o addirittura li mancava; ma lo si perdonava facilmente, sapendo che se non si presentava a chi lo attendeva, voleva dire che si era fermato con qualcuno che aveva più bisogno.
Tra i giovani ai quali si dedicava allora, il prete chiamato ad occuparsi di loro preferiva favorire quelli che si trovavano in situazioni critiche, come i ragazzi che d’estate, avendo i genitori al lavoro, trascorrevano il proprio tempo sulla strada. Per questi ragazzi lasciati soli pensò ad un soggiorno diurno al mare, vivacizzato da tutta una serie di attività ludiche in grado d’interessare e di coinvolgere, in modo da intrattenere sulla spiaggia i bagnanti in erba durante gran parte della giornata.
L’anno in cui diressi io la compagnia ci divertimmo molto, in un turbinio d’iniziative, di giochi, di spericolati tuffi; alla fine volemmo concludere le attività al mare con una movimentata, indimenticabile gita al castello di Gradara.
Un’altra opportunità che l’educatore in tonaca offrì ai giovani riminesi, questa volta come alternativa alla marina, furono i suoi allettanti e corroboranti campeggi estivi, che portarono in montagna schiere di ragazzi. Ad essi veniva offerto un simpatico soggiorno, appositamente studiato e preparato con intenti di svago, ma anche di formazione; si trattava di esperienze che riempivano l’anima di chi le provava, oltre che gratificarla con le gite, le ascensioni, i giochi, i canti.
Ad un certo punto il vulcanico sacerdote, sull’onda del successo ottenuto dai famosi campeggi di montagna, progettò addirittura la costruzione di una vera e propria casa per i giovani tra le Dolomiti, permanentemente aperta a loro, agli adolescenti in particolare.
Sorse così quella magnifica costruzione di Alba di Canazei, che prese la denominazione di “Madonna delle Vette”. Per la sua realizzazione il prete che la sognava e ardentemente la voleva si spinse a chiedere aiuto persino in America, negli Stati Uniti, con un viaggio improvvisato ed avventuroso, che però diede i suoi frutti. In ogni modo, lui stesso amava la montagna, dove si poteva trovare più facilmente pace e tranquillità e apprezzare la bellezza che porta in alto. Secondo l’amico ed educatore dei giovani, nel silenzio dei monti per loro risultava più agevole stare nel raccoglimento, leggere in sé stessi e, in una natura incantevole, cogliere la presenza dell’eterno.
L’area alla quale si riferiva la responsabilità di assistente degli ”Aspiranti” di don Oreste era l’intera diocesi di Rimini e, poiché ogni parrocchia aveva un suo gruppo aspirantistico, il don, per occuparsene, era costretto a muoversi continuamente. Si muoveva da una località all’altra servendosi di un “gippone” che in quei tempi era in dotazione all’associazione della quale era dirigente; con quel mezzo fece un’infinità di viaggi, in un’occasione si ribaltò anche. L’automezzo finì in una scarpata, capovolgendosi con il prete e il suo compagno di viaggio, un incidente non da poco, ma che ebbe un esito indolore, perché i due infortunati ne uscirono incolumi. A sua volta, per muoversi tra le varie parrocchie cittadine il don si serviva di una motocicletta, in questo caso risultò meno fortunato, fece un bel capitombolo e finì all’ospedale. Qui, l’intrepido centauro, dal letto dove giaceva ferito, nonostante i “danni” subiti, continuò a ricevere i giovani…
Sempre grande don Oreste, incredibile nella sua eccezionale ed indomabile vitalità, in ogni modo impagabile, unico ed irripetibile.
Per capire meglio i giovani .
Durante gli anni ‘50, la cura degli “Aspiranti” di Azione Cattolica, per la quale collaboravo con don Oreste, presentò anche qualche risvolto culturale. Da questo punto di vista si presentava in primo piano l’esigenza di una preparazione psicologica di noi operatori nel mondo giovanile, presupposto indispensabile per una efficace azione educativa, perciò il don si occupò anche di studi psicologici. Tra l’altro si dedicò con particolare attenzione e cura all’esame della caratterologia di R. Le Senne, una proposta psicologica allora in voga. Non mancava, poi, di partecipare a chi gli stava accanto il frutto dei propri approfondimenti: fu allora che i suoi collaboratori appresero che cosa s’intendesse per “emotività”, “primarietà” e “secondarietà”, “attività”, tutti elementi base della psicologia presa in considerazione.
Così, alla luce dei concetti psicologici che andavamo man mano conoscendo, noi che frequentavamo il sacerdote- psicologo riuscimmo meglio a comprendere le caratteristiche della psiche umana; il don, a sua volta, utilizzava ampiamente i dati acquisiti per aiutarci a capire meglio i meccanismi dei nostri comportamenti e
a mettere con più precisione a fuoco la nostra fisionomia interiore. I dati appresi gli servivano inoltre, per trattare con maggiore precisione e profitto i giovani che continuamente avvicinava.
Sempre nell’intento di mettere più precisamente a punto le caratteristiche psichiche delle persone, don Oreste, ad un certo momento, si accostò alla grafologia, a quei tempi considerata un importante strumento d’indagine psicologica.
Assieme ad alcuni amici comuni ci recammo più volte ad incontrare padre Moretti, che allora veniva considerato lo studioso più accreditato della specialità; lo andavamo a trovare a Pesaro, dove svolgeva la propria attività di ricerca e di studio.
Gli incontri con il frate grafologo risultarono per noi, che curiosi e desiderosi di conoscere accompagnavamo don Oreste, ricchi d’interesse e di novità; a lui permisero di chiarire, precisare ed approfondire le conoscenze grafologiche già in suo possesso, per tutti rappresentò un’occasione per mettere a fuoco con maggiore completezza e cura la proprie personalità. Ricordo, tra le altre cose, che il don presentò la propria scrittura senza dire che era sua, ma il frate che la prese in considerazione si accorse subito a chi apparteneva!
La preparazione psicologica alla quale ci dedicavamo con entusiasmo e interesse dava certamente più credito al nostro impegno educativo, permetteva di predisporre con più cognizione di causa gl’interventi che compivamo. Tutto serviva a dare maggiore efficienza al nostro servizio, ma ciò che veramente sosteneva e dava slancio al nostro lavoro era la fede appassionata di don Oreste e il suo trascinante esempio.
(1- continua)
Guido Marziani