Il lavoro e lo stress provocato dal ritmo di vita della società industriale moderna hanno generalizzato il bisogno della vacanza, un tempo appannaggio di una ristretta cerchia di persone. La fortuna della nostra riviera ha trovato in questo crescente bisogno di massa il suo saldo fondamento.
Ma la vacanza ha solo la funzionalità di un bicchiere di olio, capace di far marciare più speditamente, e senza pericolo di grippaggio, il motore della produzione?
Nasce dalla cultura biblica il ritmo settenale di alternanza di giorni di lavoro e del giorno di riposo e di festa. L’autore del libro della Genesi attribuisce addirittura a Dio questa scadenza, quel Dio che ha creato il mondo in sei giorni e nel settimo si è riposato per contemplare la bontà di quanto aveva fatto.
Al di là dell’immagine, l’insegnamento è chiaro. Il ritmo fondamentale di crescita dell’uomo e della società oscilla fra questi due poli altrettanto importanti: il lavoro (non è biblico il disprezzo che vigeva nella società greco-romana per le attività cosiddette “servili”) e la contemplazione, o meglio l’attività espressiva gratuita.
Ritroviamo questo stesso binomio, alle origini della cultura europea moderna, nel motto di San Benedetto: Ora et labora.
Il lavoro è il modo attraverso cui l’uomo trasforma il mondo, affidato alle sue cure, e lo rende dimora sempre più vivibile.
Il lavoro (quando non è schiavizzato – nel qual caso perde ogni senso umano ed è mera costrizione) dice essenziale riferimento ad un progetto e quindi ad un futuro.
La vacanza, la gioia, la festa, la contemplazione dicono al contrario riferimento al presente, sono anticipazioni del compimento e assaggio di libertà dalle necessità.
Spontanea viene alla mente a questo punto la descrizione paolina della vita cristiana come costante dialettica fra il “già” e il “non ancora”. In Gesù siamo “già” salvati e per questo siamo autorizzati a far festa; ma “ancora non” lo siamo pienamente e questo ci riserva lotta e fatica.
Se questo è vero ogni semplificazione di questo ritmo binario di vita porta inevitabilmente a delle alienazioni.
È alienante immergersi talmente nel lavoro da essere incapaci di gustare il presente (famiglia, amicizie, ecc.); come è alienante chiudersi nel presente, con l’intento di riappropriarsi dei propri bisogni, senza un impegno e un progetto per il futuro.
Ma alienazione più grande è quella di vivere la vacanza come prolungamento della alienazione del lavoro. La vacanza è sentita così come una occasione da spremere fino all’ultima goccia, un tempo nel quale dimenticare, stordirsi con le sensazioni e le esperienze più diverse. È una specie di droga, di valvola di sfogo delle frustrazioni del lavoro e della vita ordinaria. Potremmo parafrasare: dimmi che vacanza fai e ti dirò com’è felice la tua vita.
La vacanza è l’occasione per recuperare e vivere in modo intenso valori che nella vita ordinaria rischiano di restare soffocati: la pace, l’amicizia, il contatto con se stessi e con la natura, la gratuità, l’espressività, la preghiera. Liberi dalla necessità del lavoro, il mondo e la vita si pongono davanti a noi come un dono, come una meraviglia… il mistero dell’essere può affiorare con più forza. Il settimo giorno Dio inventò la vacanza!
Piergiorgio Terenzi