Operazione Colomba, corpo di pace della comunità Papa Giovanni XXIII, è da un anno stabilmente presente in Libano, ai confini della Siria, nei campi profughi della regione di Akkar, a Nord di Tripoli, vicinissimi alla città di Homs al di là del confine. Da qualche mese i volontari vivono loro stessi in un campo profughi. Diamo loro voce per raccontare alcune delle loro storie quotidiane di condivisione. Storie che drammaticamente rappresentano la situazione dei profughi siriani.
M. vive in una tenda poverissima da sola con tre figli. I due più piccoli sono malati di talassemia e necessitano di trasfusioni ogni mese. M. si rifiuta di lasciare il Libano e di chiedere asilo in uno Stato europeo perché spera che suo marito torni. Due anni e mezzo fa è stato arrestato senza accuse in Siria. M. ha continuato a sperare fino a novembre scorso, quando ha ricevuto la notizia che era morto in carcere, in seguito a torture con la corrente elettrica. Qualche giorno dopo è arrivata la smentita. Di suo marito ancora nessuna notizia. Due mesi dopo, attraverso dei parenti in Siria, viene a sapere che probabilmente il corpo del marito è tra quelli bruciati in una casa isolata. E ancora dopo qualche giorno una smentita, Y. sarebbe ancora vivo in un carcere a Damasco.
Come volontari di Operazione Colomba aiutiamo M. e i suoi bambini donando il sangue per le trasfusioni, raccogliendo donazioni per pagare i farmaci e soprattutto standole vicino e portando insieme a lei il peso della sua vita.
Viviamo nel campo profughi di Tel Abbas. Abbiamo appena chiuso la tenda per andare a dormire, quando sentiamo delle urla da quella dei nostri vicini. Ci precipitiamo fuori e vediamo A., un bambino di tre anni, immobile tra le braccia dello zio che cerca di rianimarlo. Il padre e la madre non riescono a fare nulla in preda al terrore. Da qualche giorno A. aveva la febbre alta, ma i genitori non si potevano permettere la visita di un dottore. Chiamiamo l’unica persona che conosciamo al villaggio con un’automobile: il nostro amico prete libanese V., per portare il bambino nell’ospedale più vicino in fretta. Alle porte del pronto soccorso, prima ancora di entrare, gli viene chiesto chi avrebbe pagato per le cure. Il nostro amico garantisce che può pagare, ma non basta. Dopo una prima visita sommaria il medico dice che A. deve essere ricoverato, ma qui non si può, non si accettano pazienti siriani. Nel frattempo A. ha un’altra crisi di convulsioni e sviene di nuovo. Proviamo in un altro ospedale a 20 km, qui possono curare pazienti siriani, ma non c’è posto per A. Anche il nostro amico prete scoppia a piangere, i genitori esausti decidono che, a questo punto, ci penserà Dio… e riportano A. a casa, dove lo vegliano tutta la notte finché, fortunatamente, la febbre scende.
Il campo a fianco a quello in cui viviamo è formato da 40 tende, ci vanno ad abitare le persone che hanno perso ogni possibilità di pagarsi un appartamento, un garage, o anche solo un terreno dove costruire una baracca. I più poveri tra i profughi. M. era uno dei bambini che stava crescendo qui, senza scuola, senza cure mediche, senza futuro, come gli altri. Era molto vivace, voleva sempre giocare, correre. Pochi giorni fa è entrato in tenda ed ha toccato per errore i cavi elettrici che, immersi in una bacinella piena d’acqua, vengono usati per scaldare. Pericoloso, come la vita qui. È morto fulminato. L’ha trovato la sorella dopo qualche ora, non serviva più portarlo in ospedale. Regaliamo alla famiglia una foto del loro figlio. L’unica che hanno è quella che gli hanno fatto avvolto nel telo, prima di essere seppellito. Scappava dalla violenza, come tutti i siriani, la violenza l’ha trovato comunque.
Tre giorni fa è morto Dià.
Dià era un ragazzone di 27 anni, sposato con una ragazza di 18, padre di una bimba di un anno e mezzo. Stava due tende dopo la nostra, era uno dei ragazzi del nostro campo.
Dià era riservato ma spiritoso. In Siria era uno di quelli che stava bene. Durante le manifestazioni contro il regime girava col trattore e la cisterna dell’acqua e spruzzava la gente che soffriva il caldo. Con la guerra poi ha perso tutto. Qui in libano non aveva quasi parenti, la mamma è rimasta in Siria. È venuto a vivere in questo campo insieme ai suoi vecchi amici e vicini di casa. Ci diceva che soffriva, e si vedeva. Più silenzioso, più chiuso nella sua tenda. Soprattutto nelle ultime settimane, da quando sua sorella ha avuto un infarto e un suo cugino è sparito, preso dal regime. Un infarto se l’è portato via, il suo cuore ha ceduto.
Pochi giorni fa, mentre ero nella sua tenda a bere del mate, ci aveva presentato allo zio in visita dicendo “queste persone hanno pianto con noi quando il piccolo Abudi sembrava morto”. Ora restano la moglie e la bimba. Il lutto prevede che la moglie per quattro mesi e 10 giorni stia chiusa in tenda, e non possa vedere uomini. Le donne si avvicendano da lei, ed anche noi ragazze le staremo vicino.