Carissimi Gaia e Mattia, Carissimi tutti,
oggi sono sei anni esatti dal giorno in cui venni iscritto nell’albo dei beati dal grande papa Giovanni Paolo II, a Loreto. Quel giorno c’era anche il vostro Vescovo nella piana di Montorso. Perciò – se proprio lo volete sapere – chiedete a lui come ha fatto a trascrivere il messaggio che io stesso gli ho trasmesso e che ora vi è stato recapitato tra le mani…
Non pretendo da voi una memoria da elefante, ma forse vi ricorderete che l’anno scorso vi parlai della prima delle otto beatitudini, quella sulla povertà: Beati i poveri in spirito! Ora vorrei parlarvi della seconda: “Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati”. Sono sicuro che se tu, Gaia, o tu, Mattia, vi presentaste domani mattina a scuola con una frase del genere scritta sulla maglietta, fareste sbellicare dalla risate il 99,9 per cento dei vostri compagni, o perlomeno vi rifilerebbero abbondanti dosi di risolini compiaciuti, accompagnati da qualche “Ma va’!” di commiserazione.
In effetti bisogna francamente ammettere che dire “Beati gli afflitti” significa spararla davvero grossa. Come si può essere beati, cioè felici, se si è afflitti, cioè infelici? Eppure io vi posso dire che ancora una volta Gesù è OK e ha tutte le sacrosante ragioni per proclamare felici gli infelici. Sia chiaro: non perché sono infelici, ma perché saranno felici! Per convincersene, basta guardare in controluce questa beatitudine e leggerla come in filigrana sul volto dello stesso Gesù di Nazaret. Perché anche lui ha pianto: ha sentito a pelle il brivido della compassione quando si è imbattuto nel dolore della vedova di Nain, mentre portavano alla sepoltura il suo unico figlio giovanissimo. Ha pianto alla vista della Città santa, sul suo degrado morale e spirituale, sul male che dilaga nel mondo. Ed è scoppiato a lacrimare a dirotto quando ha condiviso lo strazio delle sorelle di Lazzaro per la morte del giovane fratello, suo intimo amico. Ma ha pianto anche nella sua agonia al Getsemani ed è morto tra “forti grida e lacrime” (Ebrei 5,7).
Anch’io, Alberto, ho sperimentato la solitudine, la paura, e tanti momenti di atroci sofferenze. Anch’io ho pianto: quando è morto in Russia mio fratello Lello, quando dopo gli orribili sfregi dei bombardamenti mi è toccato raccogliere i tronconi dei corpi dilaniati dalle granate e soccorrere tanta povera gente in fin di vita.
Anch’io ho pianto quando ho sperimentato il rifiuto di Marilena, la ragazza che sognavo di sposare. Ecco quanto le scrivevo:
“Amo troppo il Signore per ribellarmi o piangere su quella che evidentemente sarebbe la Sua volontà, ed infine amo te tanto, che desidero solo la tua felicità, a costo anche di miei sacrifici e rinunce”.
Ma anch’io ho riscontrato la verità di Gesù quando ho sperimentato la consolazione del “piangere con chi piange” (Romani 12,15) e la compassione per il dolore altrui. Ecco ad esempio quanto scrivevo ad un amico, per la scomparsa della mamma, nonostante avessi nutrito fiducia che il Signore la salvasse:
“Abbi fede, Vittorio, il Signore manda le prove e visita col dolore chi più ama: piangi, perché anche la parte nostra umana soffre e soffre atrocemente sotto la sferza del dolore, ma sappi renderti una ragione di questo dolore. Solo attraverso la sofferenza, possiamo giungere alla vera vita. […] Sono passato anch’io attraverso momenti di dolore, quando più volte la morte ha portato via con sé in Cielo il babbo e i fratelli, e so quanto poco servano le parole umane a lenire la ferita profonda dell’anima nostra; ma sempre mi ha confortato sentire gli amici vicini”.
Così ho capito che cosa significhi “Beati coloro che sono nel pianto, perché saranno consolati”. Gli afflitti sono i discepoli di Gesù che sognano un mondo nuovo e si addolorano per il marcio che c’è nel mondo. Portano la croce dietro a Gesù e ce la mettono tutta per riparare e compensare i propri peccati e quelli degli altri. Dio li consola in ogni tribolazione e li rende capaci di consolare gli altri.
Ma dove se ne sta Dio quando a noi tocca piangere?
Dov’è il buon Dio? Dov’è Dio? si chiedeva qualcuno ad Auschwitz, mentre i prigionieri assistevano impotenti all’impiccagione di tre loro compagni, tra cui un bambino. “Dietro di me – ricordava lo scrittore ebreo Elie Wiesel, che assisteva all’esecuzione – udii un uomo domandare: Dov’è dunque Dio? e io sentivo in me una voce che gli rispondeva: Dov’è? Eccolo, è appeso lì, a quella forca”.
Anche voi vi siete chiesti negli ultimi giorni dov’era Dio quando a Milano, in viale Abruzzi, le mani di Oleg, ragazzo di 25 anni, hanno spappolato la vita di Emilu, donna di 41 anni con l’unica colpa di passare da lì. Dov’era Dio quando l’impiegato in odore di licenziamento ha sparato ai suoi colleghi? Dove era, quando il ragazzo neolaureato ha sparato alla fidanzata sedicenne che lo aveva appena lasciato? Insomma dov’era Dio quando Caino ha massacrato Abele?
Dio era là, Dio è sempre là, ma non dalla parte dove noi guardiamo e vorremmo che fosse. Dalla parte dell’onnipotenza, della forza, ma dal lato meno visibile, dal lato fragile. Dio è presente come vittima e nelle vittime. Ecco dov’era Dio. Ecco dov’è. Cristo c’era quel 14 di nisan dell’anno 30, sul Golgotha, faccia a faccia con il male, una volta per tutte e ha vinto.
Lo sgomento del male senza senso ci costringe al faccia a faccia con Cristo in croce: in lui vediamo la nostra croce e la croce degli altri. E capiamo che non c’è altra soluzione all’enigma del dolore innocente. La croce di Cristo non elimina il chiaroscuro della fede, ma trasforma l’enigma in mistero. L’enigma è un giallo; il mistero è un’avventura. È una traversata con una fragile barca a vela, su un mare, spesso in tempesta. E Dio ci chiede di salire in barca con noi. Noi non siamo padroni del vento, e non sempre Lui placa la tempesta. Ma ci aiuta ad orientare la vela e a non affondare.
Vi lascio con una preghiera che vi può essere utile per non sprofondare nelle sabbie mobili della depressione. È un testo composto da un gruppo di disabili, inciso nel bronzo, in un istituto di riabilitazione a New York.
Avevo chiesto a Dio la forza per raggiungere il successo,
ho ricevuto la debolezza affinché imparassi umilmente a ubbidire.
Avevo chiesto la salute per fare cose grandi,
ho ricevuto l’infermità perché facessi cose vere.
Avevo chiesto la ricchezza perché potessi essere felice,
ho ricevuto la povertà perché potessi essere saggio.
Avevo chiesto il potere per avere l’ammirazione degli uomini,
ho ricevuto la debolezza perché potessi sentire il bisogno di Dio.
Avevo chiesto le cose che potessero rallegrare la mia vita,
ho ricevuto la vita perché potessi rallegrarmi di ogni cosa.
Non ho ricevuto nulla di quello che avevo chiesto,
ma ho ricevuto tutto quello che avevo sperato.
A dispetto di me stesso le mie preghiere silenziose sono state esaudite.
Tra tutti gli uomini sono colui che è stato maggiormente arricchito.
Vi lascio con queste parole di san Paolo: “Lodiamo Dio, Padre di Gesù Cristo, nostro Signore! È il Padre che ha compassione di noi, e ci consola in tutte le nostre sofferenze, perché anche a noi sia possibile consolare tutti quelli che soffrono, portando quelle stesse consolazioni che Lui ci dà”.
Vi guardo dal cielo con simpatia e affetto e vi accompagno con la mia preghiera.
Alberto Marvelli
Rimini, chiesa di s. Agostino, 5 ottobre 2010
Nella foto, Concorso Alberto Marvelli. Il vescovo Francesco premia Maria Grazia Rosi di Reggio Emilia che ha vinto con la tesi di laurea “Marvelli, preghiera, azione, sacrificio” il concorso promosso dall’Istituto Superiore di Scienze Religiose e dal Centro di documentazione dedicato al Beato riminese (foto Gallini)