La cultura cattolica, più di ogni altra, riconosce la dignità e la bellezza del corpo: essendo la nostra carne, redenta da Cristo, destinata alla Resurrezione, la sensualità dei corpi, se ordinata, non è in contraddizione con la più profonda devozione, tanto che la mistica può talvolta colorarsi di tinte addirittura erotiche.
Ne è esempio lampante l’arte di Guido Cagnacci (Santarcangelo di Romagna, 19 gennaio 1601 – Vienna, 1663), manifestatasi in quell’epoca di straordinario fermento culturale che fu quella della Controriforma.
Poco conosciamo della sua formazione, ma tra il 1618 e il 1621 studiò a Bologna, probabilmente presso Ludovico Carracci, successivamente fu a Roma, dove frequentò il Guercino. Rientrato in Romagna, visse un’esistenza inquieta e turbolenta, segnata anche da un amore sfortunato per il quale, nel 1628, venne bandito da Rimini. Lavorò quindi nella natia Santarcangelo, poi a Forlì e a Faenza. Il suo stile maturava grazie all’interesse per i temi caravaggeschi e a quanto mutuato da Melozzo da Forlì (XV sec.), ma soprattutto grazie all’influenza del coevo Guido Reni. Nel 1648 si trasferì a Venezia, per poi giungere, verso il 1660, a Vienna, dove rimase sino alla morte.
Di questo straordinario autore ha parlato, presso la Biblioteca Comunale “A. Baldini” di Santarcangelo, lo storico e critico d’arte Alessandro Giovanardi durante la conferenza intitolata “Doppio sogno – Guido Cagnacci tra melanconia ed estasi”, appuntamento extra moenia della rassegna “I Maestri e il Tempo”.
La prima delle “doppiezze” a cui si allude nel titolo è quella della melanconia: intesa come accidia, quel senso di sconfortante inutilità ed apatia, è nemico temibile degli asceti, ma, se sublimata in un profondo raccoglimento, diviene propedeutica alla contemplazione, che sola può condurre alla rinuncia delle cose caduche. La mistica, infatti, enfatizza l’importanza dell’immersione nell’intimo come condizione paradossalmente indispensabile per l’estasi, che letteralmente indica l’uscire da sé. Altra doppiezza è così “la complementarietà dei modi di dimorare in noi o fuori di noi, la contrapposizione della cecità fisica e della visione estatica: – spiega Giovanardi – gli occhi che si chiudono sul mondo, offuscati nel deliquio, si aprono alle realtà invisibili”.
La carrellata di opere mostrate ha compreso capolavori importantissimi per la storia dell’arte del nostro territorio, come Gesù Bambino con San Giuseppe e Sant’Eligio (1635), conservato presso la Collegiata di Santarcangelo, o Madonna con il Bambino e i Santi Sebastiano, Rocco e Giacinto (1625 circa), custodito nell’oratorio di San Rocco a Montegridolfo, la Vocazione di San Matteo, realizzato intorno al 1640 ed ora esposto presso il Museo della Città di Rimini. O ancora I Tre Martiri Gesuiti del Giappone (1635), ancora visibile nella chiesa di San Francesco Saverio, meglio nota come “chiesa del Suffragio”.
Ma il dipinto su cui sarà più conveniente porre l’attenzione è la Pala dei Santi Carmelitani (1631, nella immagine), conservato presso la chiesa di San Giovanni Battista. In alto, Sant’Andrea Corsini (1301-1373), carmelitano e Vescovo di Fiesole, ha una visione della Vergine con il Bambino; in basso, sulla destra, Santa Maria Maddalena de’ Pazzi (1566-1607), tiene in mano il proprio cuore, reso in modo anatomicamente perfetto, mentre un angelo la incorona con una corona di spine. Sulla sinistra è invece Santa Teresa d’Avila (1515-1582), che vive un’estasi dalla simbologia spiccatamente erotica, un misto di dolore e piacere che ella stessa così racconta: «Un cherubino teneva nelle mani un lungo dardo d’oro, sulla cui punta di ferro sembrava avere un po’ di fuoco. Pareva che me lo configgesse a più riprese nel cuore, cacciandomelo così profondamente che mi giungeva fino alle viscere, che poi mi sembrava strappar fuori quando lo estraeva, lasciandomi tutta infiammata di grande amore di Dio. Il dolore della ferita era così vivo che mi faceva uscire dei gemiti, ma insieme pure tanto dolce che mi impediva di desiderarne la fine, né l’anima poteva appagarsi che di Dio. In questo stato ero come fuori di me». Alle estasi delle Sante fa riscontro la levità giocosa degli angeli, come avulsi dalle componenti umane di quelle esperienze.
L’organizzazione interna dei dipinti di Cagnacci invita a porre attenzione ai particolari, dai quali tutto viene poi slanciato verso l’alto. Così tutta la lettura offerta da Giovanardi è basata sugli archetipi, su stili e simboli che ritornano e che si snodano come melodie intessute su sottofondi d’organo, costituite a loro volta da argomenti e premesse metafisiche.
Filippo Mancini