Manca una storia economica e sociale di Rimini moderna. Come pure quella delle idee che vi circolavano. Molti aspetti della sua vita sono così ignorati o travisati. Ha scritto un celebre storico della Scienza, Paolo Rossi: “Anche il passato è pieno di cose nuove e sconosciute”. Tra cui possiamo porre il discorso sul ruolo svolto dalle donne lungo i secoli.
La nostra Francesca
Spesso e volentieri ce la siamo cavata con il solenne macigno di Francesca peccatrice, raccontata da padre Dante col commosso ricordo dal luogo infernale dei lussuriosi. La “verità” storica della vicenda malatestiana, non ha documenti che la attestino. Il passo di Dante è fonte letteraria e non cronachistica. Ma forse si è trattato di un omicidio politico, non d’un duplice delitto d’onore.
Lo Sciancato aveva i suoi buoni motivi per odiare il Bello. Il primogenito Giovanni avrebbe potuto per invidia progettare l’eliminazione fisica del fratello minore Paolo, protagonista stimato della scena nazionale. Francesca sarebbe la vittima non di un dramma amoroso, ma di una terribile questione politica che rispecchia il modo di operare di quella società che considerava le donne sempre soggette al volere ed al valore del maschio, simbolo del potere più assoluto. Il quale faceva cancellare tutte le versioni non ufficiali dei fatti. Secondo Boccaccio, il matrimonio fra Giovanni e Francesca è un fatto politico, seguendo usi e costumi del tempo, perché riconosce la fine di una lunga e dannosa guerra tra i Malatesti e i Da Polenta.
Cleofe ed Isotta
Questo contesto politico del potere che decide la sorte delle donne, si ripete nel 1418. Nella prospettiva di un nuovo quadro dei rapporti tra Roma e Costantinopoli, è progettato come fase preparatoria il doppio matrimonio fra i figli di Manuele II imperatore d’Oriente e due fanciulle cattoliche, Cleofe Malatesti di Pesaro (educata a Rimini) e Sofia del Monferrato. Il papa Martino V, l’8 aprile 1418, autorizza i figli dell’imperatore bizantino a sposare donne cattoliche. Del matrimonio fra Cleofe e Teodoro Paleologo, forse concluso con la morte violenta della giovane, non hanno scritto la storia i contemporanei.
A noi non è giunta nessuna narrazione utile a completare gli scarsi documenti sopravvissuti, tra cui quattro lettere della stessa Cleofe alla sorella Paola Gonzaga. Il velo dell’oblio può non essere casuale. E conferma quanto s’è visto per Francesca. Alla cui vicenda Cleofe Malatesti s’avvicina, proprio per il silenzio che ne avvolge la sorte.
È un’altra donna a cambiare il volto della cultura malatestiana riminese, quell’Isotta che troviamo sepolta nel nostro Tempio, e che mette in ombra le immagini di Sigismondo Pandolfo quale condottiero ed uomo di guerra. Anche grazie a lei, il Tempio resta sino ai nostri giorni la testimonianza d’una novità assoluta, il desiderio di rinnovare il grande sogno umanistico dell’incontro tra le culture, proprio mentre le armi reggevano e regolavano le sanguinose divisioni.
Diamante, ribelle
Per constatare come cambi la posizione della donna nella gestione della vita famigliare e nella società, saltiamo qualche secolo ed arriviamo a quello XVIII, con Diamante Garampi. La quale dimostra la più esemplare volontà di essere l’unica padrona della propria vita, in un momento in cui sta nascendo il più grande scontro, per l’età moderna, tra le nuove idee scientifico-politiche e le posizioni conservatrici o reazionarie (ci si scusi il linguaggio tipicamente odierno) delle forze politiche in campo in tutt’Europa.
Diamante si ribella al volere del padre Francesco (fratello del celebre card. Giuseppe) che ha deciso il suo futuro, combinandone il matrimonio secondo il costume del tempo. Diamante richiama la figura goldoniana di Mirandolina su cui ha scritto Franca Angelini (1993): “vincitrice del Cavaliere”, è però “vinta dalla legge che incombe sulla condizione femminile, l’ubbidienza al padre”, che nel caso specifico significa dover sottostare all’interdizione del passaggio da una classe sociale a un’altra. Nel Manzoni s’incontra poi la figura della Monaca di Monza, sulle cui labbra egli pone queste parole: “Già lo so che i parenti hanno sempre una risposta da dare in nome de’ loro figliuoli”. Parole che fanno il paio con quelle pronunciate da don Rodrigo a proposito di Renzo e Lucia: “Son come gente perduta sulla terra; non hanno né anche un padrone: gente di nessuno”.
Il canto di Antonia
Al 1700 appartiene pure una giovane e bella cantante romana, Antonia Cavallucci che peregrinando per l’Italia da Torino alla Sicilia, dalla Calabria a Padova, approda a Rimini attorno al 1750. Suo padre Bartolomeo, un celebre Pulcinella, è morto nel 1746. Arcigna custode delle misere sostanze che ricava dall’esercizio dell’arte, è la madre che nel 1749 l’ha spinta a sposare un tal Celestini. Costui la trascura e maltratta, facendola vivere nei più gravi stenti. L’unica cosa preziosa che Antonia Cavallucci possiede è la bellezza. Uomini di ogni età, assistendo ai suoi spettacoli, ne sono talmente affascinati da trasformarsi in una folta schiera di corteggiatori sognanti.
A questa schiera appartiene il medico riminese Giovanni Bianchi (ovvero Iano Planco) che la invita l’11 febbraio 1752 ad una serata della Accademia dei Lincei riminesi, rifondati dallo stesso Bianchi sei anni prima. Il fascino che la ragazza esercita su di lui, le costa caro. Bianchi l’allontana da sé, al fine di arginare quello che appariva un vero e proprio pubblico scandalo. Antonia Cavallucci è costretta a riparare a Bologna dal suo protettore che la munisce di presentazioni per amici, i quali avrebbero dovuto provvedere ad accoglierla e ad aiutarla. La sfortunata situazione coniugale è aggravata dalle difficoltà di trovar scritture, nonostante il successo che riscuote ogni volta che si esibisce. Forse, a renderla invisa ai benpensanti ed ai custodi della pubblica moralità, è la sua stessa avvenenza, facilmente scambiabile, da quelle menti, per un veicolo di seduzione diabolica, sulla scia di opinioni allora comuni.
Cervia e Rimini
Torniamo alla nostra Diamante. Suo padre aveva progettato le nozze della figlia, scegliendo come consorte il marchese Pietro Belmonti, un loro parente. Lei non è d’accordo. A diciotto anni, il 25 aprile 1764, Diamante Garampi sposa Nicola Martinelli (non ancora ventiduenne). Diamante, il 16 ottobre 1763, si rifugia nel monastero di Sant’Eufemia, dove si trattiene sino all’8 gennaio 1764, quando fa ritorno alla casa paterna. Qui resta per sei giorni, prima di isolarsi in un altro convento, quello delle monache di San Matteo, il 13 dello stesso mese, allo scopo di prepararsi alle nozze con Nicola Martinelli.
Contro il volere dei padri della politica vanno le donne romagnole nei momenti più caldi della storia settecentesca. Succede a Cervia il 17 agosto 1796 quando, come racconta il canonico Pietro Senni, esse sono furenti ed animano con successo i salinari alla rivolta, per denunciare la violazione dei contratti. È una sfida che, dal basso, i tempi nuovi lanciano ai detentori del potere, abituati a guardare ai popolani con l’atteggiamento paternalistico di chi concede qualche beneficio, ma ignora del tutto ogni discorso basato sul concetto di giustizia, proprio mentre per le strade d’Europa l’ammaestramento rivoluzionario s’espande facilmente con i nomi di libertà, eguaglianza e fraternità, coagulando forze eterogenee, e suscitando reazioni altrettanto diversificate.
Altre donne s’agitano nel porto di Rimini durante la “rivolta dei pescatori” (30.5.1799-13.1.1800), mirante ad eliminare il tradizionale sistema di rappresentanza, basato sui due ceti di Nobili e Cittadini (i borghesi). Lontani dal diretto controllo della cosa pubblica, i pescatori però sono uno dei motori dell’economia locale.
(8. Continua)
Antonio Montanari
Nella foto l’immobile società
dell’aristocrazia veneziana in un’opera
di Pietro Longhi (1702-1785)