Realtà differenti ma ugualmente delicate e sofferte per le donne del passato. La nobile, obbligata al matrimonio con un uomo di rango sociale più elevato scelto dalla famiglia secondo criteri di alleanze e potere, pena il celibato o i voti monacali, doveva portare una dote proporzionale alla condizione finanziaria della propria famiglia. Per lungo tempo la realtà contadina vide invece la donna libera di scegliersi vita e marito secondo precisi canoni di corteggiamento: il pretendente delegava due anziani del luogo a chiedere la mano della fanciulla al padre di lei, che cacciatili di casa una prima volta li accettava la seconda, previo consenso di figlia e parenti; all’indomani del matrimonio gli sposi recuperavano in casa della sposina la sua modesta dote. Da allora acqua sotto i ponti ne è passata e la condizione femminile è oggi ben diversa, pur registrando ancora non poche difficoltà, soprusi e violenze e una non raggiunta parità col maschio. Tre le donne d’estrazione, storia ed epoche diverse, scelte per rappresentare l’universo femminile: Chiara Agolanti, Teodora Stivi Battaglini, Gea della Garisenda.
Chiara: Per il Signore nulla è perduto
Discende dalla ricca famiglia fiorentina che, esiliata a Rimini assieme agli Adimari e agli Agli e attestata nel 1256 a Saludecio con Johannes Agolante, si legò ai Malatesti e s’inserì nel tessuto urbano sottentrando nelle zone d’influenza della vecchia nobiltà, acquistando case e altri beni nel circostante territorio, investendo come banchieri e uomini d’affari e collocandosi rapidamente in primo piano grazie all’accresciuto prestigio, soprattutto militare e giuridico. Chiara venne educata dal padre Onosdeo in modo quasi maschile Alla morte della madre il padre si risposò con una dama con figlio. Per rinforzare il rapporto tra i due casati, Onosdeo fece sposare tra loro i due adolescenti, ma il giovane marito morì dopo soli tre anni e Chiara ereditò un’immensa ricchezza. Bella, ammirata e protagonista di frivolezze e mondanità suscitò scandali e pessime dicerie anche dopo la tragica morte del padre e del fratello che la rese proprietaria dell’intero ingente patrimonio degli Agolanti facendone uno dei migliori partiti della città. Nulla cambiò col secondo matrimonio, contratto con un compagno di bravate (uomo tra i più ricchi e chiacchierati di Rimini) a patto di continuare la vita sregolata.
Una vita che cambia
A 34 anni, inaspettatamente entrata a pregare nella chiesa dei Padri Conventuali di “S.Maria in Tribio” e pervasa da grande serenità, comunicò al marito il desiderio di farsi monaca e, ottenendone il consenso, iniziò un’esistenza di pietà, opere buone e penitenze. Convertito anche lo sposo (morto due anni dopo) Chiara s’occupò d’ogni miseria materiale e morale e della dote e assistenza delle ragazze povere da sposare. Spogliatasi di ogni bene, elemosinò di casa in casa il necessario a una vita di clausura. Fondato il piccolo convento di Santa Maria degli Angeli (poi Santa Chiara) e ottenuta la benedizione del vescovo di Rimini Guido Abasio, emise i voti religiosi secondo la Regola di Santa Chiara e visse un decennio come superiora, intensificando i sacrifici e la contemplazione della Passione di Cristo che sospendeva solo davanti al Sacramento. Divorata dal fuoco dell’espiazione fece penitenze terribili e morì a 46 anni (10 febbraio 1326).
Festeggiata come Beata Chiara da Rimini (10 febbraio) riposa nella chiesa del monastero. Nel primo volume Le donne di Casa Malatesti (Bruno Ghigi Editore, Rimini 2005) Cinzia Cardinali e Andrea Maiarelli riferiscono che la Beata Chiara da Rimini non sarebbe (come da tradizione e storia) una Agolanti e che l’errore deriverebbe dal fatto che: «per raccogliere le sue spoglie fu usata l’urna di Anna degli Agolanti».
Lo scandalo di Teodora
Gran scandalo scoppiò nel 1628 per la fuga d’amore della nobile riminese Teodora Stivivi vedova Battaglini col pittore santarcangiolese Guido Cagnacci (Santarcangelo di Romagna, 1601-Vienna Augustinerkirche, 1663). Cagnacci, una delle personalità più affascinanti e misteriose del Seicento italiano, lavorò per gli altari di Rimini (San Giovanni Battista, il Gesù) e del circondario (Saludecio, Santarcangelo, Urbania). Le conseguenze di tanta audacia furono la vita monastica per lei, la scomunica dalla Chiesa per lui. A denunciare il pittore all’autorità pontificia, impedendogli di sposare la bella nobildonna che gli si era promessa, fu il padre Matteo Cagnacci, conciapelli e messo del comune di Casteldurante (Urbania), che nell’atto testamentario del 1643 detrasse dall’eredità del figlio Guido le spese sostenute per gli studi di pittore (decisione forse maturata dopo lo scandalo di cui era stato protagonista a Rimini). Chi fosse poi la giovane donna che nel 1649 visse a Venezia col Cagnacci (in incognito col cognome di Canlassi) facendogli da modella e vestendo da uomo per passare inosservata, non s’è mai saputo.
Gea Della Garisenda:dea dell’operetta
Nel 1819 Carolina Amalia di Brunswick, moglie di Giorgio IV e futura Regina d’Inghilterra, donò la settecentesca tenuta di Villa Verucchio al fedele e prestante accompagnatore Bartolomeo Pergami che volle chiamarla “Amalia”. La tenuta tornò all’antico splendore e divenne il salotto buono dell’arte e della cultura quando l’acquistò nel 1925 Alessandra Drudi (24 settembre: Cotignola, 1878-Villa Verucchio, 1961), in arte Gea Della Garisenda (nella foto)e moglie del Senatore Teresio Borsalino, noto nel mondo per i suoi cappelli. Ma andiamo per ordine. Causa le ristrettezze economiche della famiglia Drudi, Sandrina era stata affidata alle suore del Collegio “Don Morelli” di Lugo di Romagna, dove poté studiare e avvicinarsi alla musica con la pianista Carolina Codecasa. L’interessamento del compositore e insegnante di canto Umberto Masetti e una sottoscrizione pubblica promossa dal sindaco di Cotignola, Giuseppe Strocchi, le consentirono d’iscriversi al Liceo Musicale di Bologna diretto dal compositore-pianista-direttore d’orchestra Giuseppe Martucci. Il 2 settembre 1899, pochi mesi dopo il brillante diploma, la soprano Sandra Drudi debuttò al Teatro Rossini di Lugo di Romagna nel ruolo di Mimì de La Bohème di Puccini e l’immediata approvazione di critica e pubblico le aprì la strada a futuri successi. Nel 1902 sposò un noto possidente di Bagnacavallo, il nobile bolognese Pier Giovanni Dragoni, e nel novembre dello stesso anno diede alla luce la figlia Piera.
L’opera divenne operetta
Ma la non brillante situazione economica sollecitò l’artista a lasciare l’opera per l’operetta, allora in gran voga. Per salvaguardarsi il futuro di cantante lirica, in caso di fiasco operettistico, assunse il nome d’arte Gea della Garisenda, coniato per lei dall’ammiratore e amico Gabriele D’annunzio, e nel 1907 esordì con trionfo al Teatro Dal Verme di Milano ne La Mascotte. Il suo più grande successo l’ottenne l’8 settembre 1911 al Teatro Balbo di Torino quando lanciò l’inno patriottico A Tripoli, divenuto poi notissimo con il primo verso della strofa Tripoli bel suol d’amore. Pare che nell’occasione sia comparsa in palcoscenico vestita col solo tricolore (da allora il pubblico accostò sempre il suo nome all’inno patriottico). Nel 1912 costituì la “Compagnia Italiana di opere comiche ed operette Maresca-Garisenda-Caracciolo” e durante le rappresentazioni ad Alessandria conobbe il senatore Teresio Borsalino (già suo grande ammiratore, poi compagno dopo la separazione dal marito) che sposò il 3 settembre 1933 dopo la morte del Dragoni. Poeti e artisti come Carducci, Leoncavallo, Pascoli e Trilussa ne ammirarono talento e bellezza (Trilussa le dedicò una delicata poesia). Nel marzo 1943 l’illustre pittore e cartellonista triestino Marcello Dudovich (famoso anche per i manifesti della Rimini balneare e della “Borsalino”), grande amico ed ospite di riguardo e tra i più assidui a Villa Amalia, affrescò con paesaggi locali e temi cavallereschi la “Sala delle Bandiere” a memoria di tempi fiabeschi e d’amicizia, di mecenatismo e grande stile, di dame e cavalieri. Il cinema la tenne a battesimo nel 1916 col film La Vergine innamorata di Mario Ceccatelli e molti sono gli artisti contemporanei che, come Alberto Sordi, si sono ispirati per i loro film alla sua fama e bellezza. Abbandonate le scene nel 1922 e definitivamente trasferita a Villa Amalia nel 1925, partecipò nel 1957 alla trasmissione radiofonica “La famiglia dell’anno” in rappresentanza delle nonne dell’Emilia Romagna e vinse il riconoscimento Il caminetto d’oro. Scomparsa nel 1961, è onorata col premio Gea della Garisenda, annualmente conferito alla miglior cantante d’operetta. II nipote, conte Alessandro Savazzi, proprietario della tenuta (resa famosa in Italia e all’estero per i suoi vini) e principale promotore del campo da golf e dell’Amalia Golf Club (ora Rimini Golf Club), ricorda un amabile fatto di quando, bambino, soggiornava con i nonni Amalia e Teresio nella villa di RiccioneGea della Garisenda. Quando Teresio Borsalino chiese alla moglie il perché dell’inattesa presenza, nonna Gea rispose tranquilla: “Per il latte fresco del piccolo Alessandro”.
Maria Pia Luzi