All’Alighieri di Ravenna il capolavoro di Mozart diretto da Matteo Beltrami con un allestimento proveniente dal Festival di Spoleto
RAVENNA, 14 gennaio 2018 – Come satelliti rispetto a un pianeta, ogni personaggio orbita attorno Don Giovanni. Nello spettacolo di Giorgio Ferrara, nato per il festival di Spoleto e proposto al Teatro Alighieri di Ravenna, gli interpreti stanno quasi sempre in palcoscenico, anche quando non agiscono: muti testimoni delle azioni del grande seduttore. Del resto nel sestetto finale si vede come, dopo la morte del protagonista, tutti quanti siano smarriti e – ormai privi del loro centro di gravità – abbiano perso ogni motivazione esistenziale.
La elegante e raffinata cornice visiva, con un colonnato che si modula progressivamente, arricchendosi di statue e delineando una sorta di cripta (scene di Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, mentre i bellissimi costumi sono di Maurizio Galante), confina Don Giovanni in una marmorea e un po’ raggelata classicità. Nel 1787 Mozart e Da Ponte avevano infatti elevato l’archetipo del “dissoluto punito” a figura mitologica, destando – nel tempo – l’interesse d’innumerevoli pensatori che l’hanno definitivamente consacrata nel novero dei classici. In questo spettacolo viene chiamato espressamente in causa il filosofo danese Søren Kierkegaard, autore di un celeberrimo saggio sul Don Giovanni: proiettati sul sipario, stralci dei suoi scritti ce lo ricordano, ma al tempo stesso spostano – fin troppo – l’accento su quel senso di morte che è connaturato soprattutto alla sensibilità romantica. Un aspetto ben leggibile nella personalità del protagonista: non certo, però, l’unica chiave di lettura.
Se lo spettacolo, dunque, orienta sul versante tragico l’equilibrio dell’opera, dalla musica scaturisce invece un inesausto vitalismo, che la bacchetta fluida e precisa di Matteo Beltrami sa far emergere con chiarezza. Corrisposto benissimo dai giovani orchestrali della Cherubini, la sua lettura è nel segno della tradizione italiana: tempi incalzanti e talvolta rapinosi, dove le nervature drammatiche della partitura si stagliano con ancor maggiore evidenza.
Peccato che a tanta vitalità orchestrale non corrispondesse un protagonista capace di slanci: Dimitris Tiliakos, anzi, è apparso un freddo e compassato calcolatore; né una correttezza di fondo è bastata a compensare una voce priva di sensualità. A risarcire, almeno in parte, la delusione per un protagonista così statico è venuto il Leporello ben a fuoco di Andrea Concetti, anche ottimo attore, dotato di grande verve scenica. Se la voce tradisce qualche logorio, il fraseggio e gli accenti sono ideali per un personaggio a più dimensioni: in parte servo astuto, nel solco della commedia dell’arte, e in parte animato da un desiderio di riscatto sociale che lo porta quasi a essere l’alter ego del protagonista. Più sbiaditi gli altri personaggi, a cominciare dalla Donna Anna di Lucia Cesaroni, un po’ sottodimensionata sul piano drammatico – il suo è un autentico ruolo deuteragonistico – ma che, comunque, ha saputo affrontare con sicurezza le colorature. Aggraziata vocalmente Francesca Sassu, anche se non troppo incisiva nei panni di Donna Elvira. Nelle due insidiose arie di Don Ottavio, il tenore Giulio Pelligra è venuto a capo delle difficoltà vocali, lasciando un po’ in ombra i profondi significati introspettivi che Mozart affida al personaggio. Arianna Vendittelli, purtroppo indisposta, ha interpretato una Zerlina apparsa lodevole nelle intenzioni. Duttile interprete, Daniel Giulianini ha esibito consistenti mezzi vocali ed è stato in grado di valorizzare anche i risvolti comici di Masetto; molto sonoro, come capita raramente, il Commendatore di Cristian Saitta.
Grande entusiasmo fra il pubblico, dove erano numerosi coloro che assistevano a Don Giovanni per la prima volta. Nonostante sia uno dei massimi vertici operistici, negli ultimi anni è diventato inspiegabilmente un titolo poco eseguito.
Giulia Vannoni