Ricordare don Gino Maggioli nel giorno trentesimo della morte, costringe alla rivisitazione del passato. Una fuga nel tempo che abbraccia quattro quinti di secolo. Anzitutto i dodici anni di Seminario che partono dalla guerra fascista in Etiopia e chiudono i battenti con il Seminario di emergenza prima a Montefiore Conca, poi a Borgo san Giovanni, infine nella sede storica di Via Leon Battista Alberti. Tempi ingrati di dolore, di privazioni e di sangue vissuti con la naturalezza della normalità.
La primavera del 1948, per la bella nidiata di otto teologi, batteva l’ora di lasciare il tempo dello studio e la compagnia della comunità seminariale per l’approccio con la società post-bellica. Cresciuti alla scuola attiva e contemplativa del vescovo missionario Luigi Santa, il motore dello spirito batteva al massimo dei giri verso la pratica pastorale. Fui spedito in avanscoperta con destinazione Gesso di Sassofeltrio. Cinque mesi più tardi mi trovai con Gino vicino di parrocchia a Faetano di San Marino. C’incontravamo spesso e volentieri a celebrare nelle chiese confinanti. Giusto un anno a scarpinare su e giù per le strade comunali di Sassofeltrio-Montescudo e quelle “governative” del Titano. Io, parroco a 24 anni, e lui a 26. Si trattava di parrocchiette rurali ma pur sempre con la responsabilità di una comunità cristiana da gestire.
Don Maggioli esercitò il ministero di là del Conca (Cerreto di Saludecio e San Gaudenzo di Montefiore) dal 1940 al 1970. In quell’anno spostò la tenda verso la terra originaria con la cura d’anime a Camerano di Poggio Berni. Fare il curato di campagna gli stava congeniale come l’abito di festa. Servì i lavoratori dei campi, amorevolmente e fu ricambiato. Si trovava nella condizione giusta e l’anima affiatata con l’ambiente rurale al segno che contava di chiudere gli anni canonici di ministero con “i suoi e tra la sua gente”. A scombinare i desideri e le attese si frammetteva “la linea pastorale” della Curia diocesana che lo destinava alla cappellania dell’Istituto Valloni. Fu un contraccolpo da cardiopalmo psicologico e spirituale. Si trattava di trapiantare un tronco settantenne dell’humus della “buona terra” tra case, palazzi e condomini, al contatto con persone per le quali il treno della vita suonava il campanello della stazione Termini. Obbedì con il cuore spezzato ma nello spirito della disciplina ministeriale. Di quei quindici anni al servizio di anziani e degenti spicca la bella testimonianza. “Con la sua presenza servizievole e silenziosa ci lascia un bellissimo ricordo”. Mentre m’attardo a riflettere la mente corre al salmo 125, detto “il cantico delle Ascensioni”: “Nell’andare se ne va e piange, / portando la semente da gettare / ma nel tornare viene con giubilo / portando i suoi covoni”. Cioè il raccolto delle opere caritatevoli e sante.
Fra noi due andò così. Tra lo scadere della tenerezza natalizia e i primi vagiti del 1974, un freddo mattino invernale ci ritrovammo viso a viso nella chiesa cittadina dei Paolotti piazza Tre Martiri. Ci abbracciammo come si usa tra fratelli nella sagrestia dei religiosi. Troppi anni erano scivolati sulla ruota del tempo dal lontanissimo 1948. Eravamo cambiati ambedue dentro e fuori. Lo feci parlare. Riuscii a vederlo sorridere. Amorevole quella luce degli occhi e il candore fanciullesco del volto con la pelle brunita di chi respirava l’aria assolata dei campi. Negli anni posteriori, dal Duemila in seguito, seppi che le gambe gli stavano cedendo e che celebrava seduto. Mi dissero del ricovero agli Infermi e il ritorno a casa. Cioè ospite tra gli ospiti nella medesima struttura dov’era convissuto per tre lustri come guida spirituale.
Don Gino Maggioli ha cavalcato l’onda lunga del secondo Novecento, cinquant’anni che valgono un millennio. Partito dalla scomunica ai comunisti di Pio XII ha fatto appena in tempo a riflettere sulle pagine sapientissime dell’Enciclica “Salvati per la speranza”. All’inizio c’erano i compagni – operai e contadini – che votavano Palmiro Togliatti in prospettiva di un riscatto economico e sociale ma contemporaneamente pregavano il Dio dei cieli per la salvezza dell’anima. Di quel paradosso esistenziale non è rimasto nulla. Attualmente la cristianità soffre nello stato di conflittualità con la filosofia teorica e pratica del relativismo il quale esclude qualsivoglia speranza sia nell’uomo che in Dio. Aveva radicato, don Gino, il proprio habitat nella natura, che sono le stagioni dell’anno e la fatica dei campi. Apparteneva alla schiera dei “poveri di spirito”. Similmente al bracciante della parabola evangelica, gioiva per la scoperta del tesoro sotterrato nel campo, che era la virtù sacerdotale esercitata nella semplicità della convivenza rurale.
Trasferito al Valloni spendeva il secondo tesoro fertilizzando il nuovo terreno di lavoro: il sentimento del cuore a sollievo di chi versava nella solitudine estrema, quel confine ultimo che segna la caduta di ogni speranza temporale e prepara la coscienza all’incontro con Dio. Riversò su quella carne sofferente il suo spirito “ricco di bontà e di misericordia”. Per lui rimane l’encomio dell’Amministrazione del Valloni: “Verrà ricordata sempre per la sua umanità, premura e costante vicinanza agli anziani ospiti, ai familiari e agli operatori”. Splendido. Perfetto. Parole ispirate che andrebbero scolpite sulla pietra tombale.
Ciao, fratello Gino. Illumina l’animo vederti compreso e gratificato. Ora riposa “nel meraviglioso paradiso di Gesù”, dove il buon Dio “dona ai suoi santi tanta gloria quanta ne possono ricevere” (Teresa di Lisieux). Ti mando un bacio sulla punta della penna. Prega per me.
don Aldo Magnani