È prete da due anni e qualche mese, ma a Sogliano, in parrocchia, c’è da cinque. Don Gino Gessaroli, 36 anni, è arrivato qui, infatti, nella fraternità sacerdotale con don Luigi, don Giuseppe e don Eugenio, quando ancora studiava teologia e poi per l’accolitato e il diaconato.
Anche se è originario della parrocchia di San Martino in XX, gran parte della sua giovinezza l’ha passata a San Domenico Savio ai Padulli, impegnandosi nei gruppi giovanili come educatore e capo scout.
“Credo di dovere a questa esperienza parrocchiale la mia vocazione. Dopo la laurea avevo cominciato a lavorare presso l’Università di Modena come ricercatore nel campo delle nuove tecnologie per la conservazione degli alimenti. Il lavoro mi occupava molto e la distanza da Rimini mi impediva di continuare il mio impegno settimanale a favore dei gruppi giovanili. Sentivo che la mia vita si stava svuotando… Che avevo bisogno di orientarla diversamente”.
Ed è in questo stato di ripensamento che hai incontrato il Seminario?
“Più o meno. Nel mio impegno parrocchiale coi giovani e ragazzi avevo sempre ben presente la figura di Gesù, modello dell’educatore. Nelle formazioni per educatori mi hanno affascinato le figure di don Milani e Sant’Ignazio, e per seguirli in qualche modo il Seminario mi è sembrata la via più immediata”.
Ma per seguire Sant’Ignazio perché non sei andato coi Gesuiti?
“Ero giovane <+nero>- sorride quasi per smentirsi -<+testo_band> e mi faceva paura l’obbedienza dei Gesuiti… Ma in fondo è comunque importante e necessario obbedire sempre a Dio”.
Paura dell’obbedienza gesuitica, e tuttavia ti sei avviato a diventare prete …
“A dire la verità, da laico, la vita del prete mi sembrava piuttosto noiosa, monotona, passata in chiesa fra una messa e l’altra… Era un vedere molto esteriore, vedevo un fare e non un essere. Preparandomi a diventare prete ho cominciato a cambiare idea… E adesso che sono prete trovo la vita molto impegnativa, piena, da non avere il tempo di respirare…”.
Anche in questo momento don Gino ha fretta di andare a una riunione allo Stradone. Ma l’intervista bisogna finirla. E dunque come vuoi essere prete?
“Mi sento chiamato da Dio ad essere un suo collaboratore, non un suo facchino. Voglio dire che per realizzarmi come prete devo preoccuparmi di essere prete, prima di fare il prete. Io non credo che Dio scelga una persona per le sue doti o capacità personali, ma per realizzare il suo progetto di portare grazia e salvezza agli uomini. Per fare questo un prete deve essere grazia, misericordia, carità… Deve essere copia di Gesù. Dio sa vedere il divino nell’umano. Anche noi dobbiamo imparare a farlo. Ecco, il prete è uomo di Dio non perché, o non solo perché, sta in chiesa a mani giunte per ingraziarsi la divinità, ma ha le mani in pasta nel quotidiano, come Gesù”.
Che cosa è richiesto a un prete di oggi in più che a un prete di qualche anno fa, di prima del Concilio?
“Sicuramente deve essere un po’ più missionario e meno economo, interessarsi di più del Vangelo che dell’amministrazione parrocchiale. Oggi è cambiato l’impianto culturale della nostra società: la gente non ha bisogno del fervorino devozionale, ma del nutrimento sostanzioso della Parola di Dio. Il prete deve passare dalla predica all’omelia, dai commenti estemporanei dei fatti, alla lettura sapienziale della vita”.
È sicuramente un quadro suggestivo quello che dipingi, ma come riesci a realizzarlo nel concreto?
“Ti confesso che nel periodo del Seminario sono stato combattuto fra l’idea di andare in missione o essere prete diocesano. In quarta teologia ho deciso di restare a Rimini perché mi sono convinto che anche il lavoro pastorale di qui ha bisogno della spinta missionaria, oggi più che mai. È lo spirito missionario che mi da la forza di stare qui, che mi permette di stare dove sono. In un mondo che tende sempre più al paganesimo, c’è grande bisogno di evangelizzazione. Semmai la fatica consiste nel rendere consapevole la gente di questo bisogno, perché si crede già cristiana. È più facile invitare un pagano a diventare cristiano, piuttosto che far prendere coscienza a un cristiano di essere quasi pagano e di avere bisogno di conversione”.
Una ultima nota su come vivono i preti oggi … su come siete organizzati voi a Sogliano.
“Parto da lontano, dai tempi in cui, diventando parroco, il prete si sentiva sistemato: aveva la sua parrocchia, portava con sé la sua famiglia e gestiva il suo quotidiano farcito di religioso e di profano. Poi è venuto il tempo in cui il prete viveva da solo in canonica, senza più la sua famiglia, perché genitori o sorelle sistemate già per proprio conto. E questa solitudine è stato un momento deleterio per i preti. Adesso si tende a vivere nelle fraternità sacerdotali, come facciamo noi a Sogliano… Non che sia sempre facile, ma sicuramente è garantito un maggior confronto, un più valido sostegno spirituale e un’azione pastorale più mirata e omogenea”.
E mentre don Gino si precipita allo Stradone io rimango per qualche minuto a contemplare l’estensione di questa parrocchia: dal mare ai monti, dal Savio al Marecchia.
Egidio Brigliadori