Al Comunale di Bologna un nuovo allestimento del capolavoro verdiano, messo in scena nella versione in quattro atti
BOLOGNA, 14 giugno 2018 – Non importa se nella versione in quattro o cinque atti, con il libretto in francese oppure in italiano: Don Carlo rappresenta uno dei massimi vertici operistici. Un esempio di grandissimo teatro, dove la cupa e drammatica atmosfera della vicenda politica – indissolubilmente intrecciata a quella sentimentale – si mescola a momenti più lievi, rappresentati dalle danze, in un continuo trascolorare tra quotidianità e tragedia: proprio come nella vita. In passato se ne sono viste e ascoltate edizioni memorabili e, seppure impossibili da replicare, il loro ricordo resta indelebile, mentre adesso bisogna fare i conti con interpreti che non hanno un particolare carisma, benché consacrati dalla notorietà internazionale.
A Bologna il capolavoro verdiano mancava da vent’anni: per il nuovo allestimento si è scelta la versione in quattro atti – quella concepita nel 1884 per la Scala – con un cast composto da alcuni tra i più gettonati cantanti di oggi. Un Don Carlo dove però latitava l’approfondimento delle psicologie dei personaggi: un aspetto che, invece, rappresenta l’obiettivo fondamentale, da perseguire attraverso gli aspetti visivi e musicali.
Il regista Henning Brockhaus realizza uno spettacolo nell’insieme statico, con l’incombente scena firmata da Nicola Rubertelli: una torre rotante che, a seconda dei casi, evoca il chiostro di San Giusto, la piazza dell’auto da fè, o la prigione di Carlo; e dove l’unica cosa che si muove è un seggiolone – su cui siede il Grande Inquisitore, sorta di convitato di pietra – con i simboli pontifici, che va avanti e indietro per quasi l’intera durata dello spettacolo. Nelle intenzioni dovrebbe suggerire un incubo mentale: una riflessione sul potere e sul suo effetto devastante sia per chi lo esercita sia per chi lo subisce. I costumi diacronici di Giancarlo Colis spaziano invece dalla fine ottocento agli anni venti.
Nello spettacolo non viene curata troppo la gestualità, per cui ogni interprete dà l’impressione di organizzarsi in base alla propria idea del personaggio. La cosa riesce bene soprattutto a Veronica Simeoni (in fascinoso abito di seta azzurrina e parrucca bionda alla Jean Harlow) che, grazie soprattutto alle sue qualità musicali, sa disegnare una seduttiva principessa Eboli – all’inizio anche apparentemente frivola – e nemmeno una certa perdita di colore nella regione grave compromette la sua impeccabile vocalità.
Gli altri, invece, stentano a trovare una propria dimensione. In disordine per emissione non meno che per appiombo ritmico, il protagonista Roberto Aronica sfoggia notevole volume e indubbia facilità in acuto, minati però dalla mancanza di sfumature. Prende invece gradualmente quota il baritono Luca Salsi: rigido e monotono nel suo duetto con Aronica all’inizio, sempre più credibile fraseggiatore nel prosieguo. Un po’ monocorde negli accenti (colpa anche di una voce arida per natura), Dmitry Beloselskiy plasma un Filippo II non memorabile per regalità o temibilità, ma comunque espressivo nel configurare la sua delusione di sposo e di padre. Purtroppo non si può dire molto per Maria José Siri, se non che concepisce una Elisabetta austera e dolente, perché dopo aver cantato primo e secondo atto è stata sostituita – a causa di un’improvvisa indisposizione – da Luisa Tambaro: un’allieva della Scuola dell’Opera che, pur visibilmente emozionata, ha portato a conclusione con professionismo la recita.
Luiz-Ottavio Faria non è quel basso profondo sepolcrale e terrificante che Verdi auspicava per la parte del Grande Inquisitore: i lunghi capelli stopposi e gli occhiali scuri gli conferivano, oltre tutto, un aspetto vagamente grottesco. Si è fatto invece apprezzare Luca Tittoto, che ha trasformato la figura del Frate in un personaggio di primissimo piano. Un valido contributo è arrivato anche dal Coro, preparato come sempre da Andrea Faidutti. A Michele Mariotti, alla guida dell’orchestra bolognese dagli ottoni non sempre adamantini, spetta il merito di non aver mai sovrastato le voci, valorizzando così anche le dizioni, sempre nitide, dei singoli interpreti. Peccato che la parola scenica verdiana non sia solo dizione, ma pure espressività.
Giulia Vannoni