Si parla spesso, e si scrive anche più spesso, con profusa eloquenza di vane parole e di astruse argomentazioni, per sostenere che le ragioni di Stato, e il diritto di una rivoluzione compiuta, giustificano tutti i soprusi consumati, e che, anche quando si giunga a negare nel delitto cruento il carattere sacro della personalità umana, questo deve rimanere impunito, piuttosto meritorio, per gli alti fini nazionali che hanno armato una mano la quale non cessa peraltro di essere assassina.
A parte il fatto che i delitti di Stato in questo caso, più propriamente e, con maggiore esattezza di espressione, si dovrebbero chiamare delitti di partito, e del partito che governa, per noi non vi sono ragioni di Stato oltre quelle che trovano la loro espressione nelle leggi, e l’adeguata tutela e salvaguardia nell’azione legale di quegli organi che sono i depositari e i custodi dell’ordine giuridico costituito.
Diritti della rivoluzione, se anche una rivoluzione v’è stata, non sussistono dopo la conquista dei poteri dello Stato, perché se per affermare la necessità di nuove esigenze sociali è occorsa una azione illegale e una insurrezione che ha infranto la legalità di ieri, compiuto l’evento rivoluzionario, bisogna ricostruire sulle nuove basi la vita giuridica della nazione, e, attraverso l’attività legislativa, avviare alla consacrazione della storia quel contenuto dottrinario e ideologico che dovrà costituire il nuovo regime; quando questo non avvenga, è necessario, per quell’esigenza imprescindibile che trova la sua ragione nel bisogno di certezza nei rapporti giuridici, tener valida quella legge che già esisteva e che il moto di rivolta non ha voluto o saputo modificare, e alla stregua delle sue prescrizioni valutare, condannare e costituire senza distinzione, tutti i rapporti sociali e le azioni di ogni cittadino.
Procedendo diversamente si sostituisce al regno della legge e dell’ordine il regno dell’arbitrio e del disordine, e disconoscendo le ragioni eterne della giustizia, si demolisce la già tanto discussa autorità dello Stato. (…) Si equivoca spesso oggi, considerando grande l’autorità dello Stato, perché un partito ha creato un’atmosfera di compressione morale; non è forte lo Stato solo perché il partito che in esso detiene il potere è armato – che anzi sarebbe da chiedersi quanto giovi alla sua autorità la presenza di una organizzazione che potente per armi minaccia di turbare lo svolgimento regolare della vita costituzionale – forte è soltanto quello Stato che trova in se stesso, e non fuori, nella disordinata e incontrollabile azione di alcuni o di molti cittadini, la forza morale e, ove occorra, quella fisica, per imporsi e comporre i moti di insofferenza nella disciplina di quelle
leggi che la libera volontà dei cittadini ha posto a base del civile consorzio.
Credere forte lo Stato solo perché in armi è il partito che lo governa, è un errore che induce alla falsa concezione dello Stato-partito, per cui si identifica l’autorità dello Stato con la forza di una fazione; la difesa e l’affermazione delle ragioni di un partito, con la difesa e l’affermazione delle ragioni dello Stato.
Quanto sia assurda tale concezione nessuno non può non rilevare; essa sì risolve in un’antitesi insanabile che sorge dalle parole stesse in cui si esprime e sposta i veri termini della lotta politica; per cui la fazione che detiene il governo volge in lotta pro e contro lo Stato quel contrasto di tendenze, che, mentre investe a vicenda i partiti nella pratica delle loro direttive e nel contenuto ideologico delle loro dottrine, rappresenta un lecito giuridico, un momento essenziale nella vita politica dello Stato moderno e sviluppa nella sua
orbita come presupposto la riaffermazione continua e costante delle sue ragioni di essere. Da tale concezione discende la artificiosa divisione di nazione e di anti-nazione, di cittadini probi e di reprobi, di meritevoli e di nemici della patria; distinzioni e specificazioni che snaturano il significato della lotta politica, esagerano i contrasti provocando bagliori di guerra civile, scissioni profonde e passioni violente che hanno come prima e immediata conseguenza di turbare profondamente l’ordine e la tranquillità sociale; e l’identificare sistematicamente lo Stato col partito genera, specie nelle classi incolte, confusioni pericolose per cui i difetti, gli errori e le deficienze del partito si attribuiscono senz’altro allo Stato. Nelle responsabilità e negli arbitri di un governo si crede di vedere l’insufficienza della costituzione politica, l’iniquità delle istituzioni fondamentali, e la medesima onda di discredito e di sfiducia si abbatte minacciosa sullo Stato e sul partito, che il popolo più non distingue, ma accomuna nella stessa condanna.
Di fronte a tale erronea concezione delle aberrazioni che ne conseguono, si sente il bisogno di ristabilire nel loro pieno valore e nel loro preciso significato i concetti di partito e di Stato, onde il primo per natura propria significa divisione, particolarità, unilateralità, mentre il secondo rappresenta la più alta sintesi della convivenza, il potere che imprime il ritmo di una vita unitaria, componendo i contrasti che formano la realtà sociale nell’armonia delle sue leggi; cosicché se il partito vive nella nazione non si identifica con la nazione, se è formato da cittadini non è il popolo, se rappresenta e tutela una somma di interessi, non rappresenta e non può tutelare l’interesse di tutti: laddove lo Stato ha come base il popolo, è la espressione e l’organizzazione giuridica della nazione che trova nello Stato, con la tutela dell’interesse generale, l’adeguato riconoscimento degli interessi particolari.
Se bene si considera, la formulazione della teoria e la applicazione pratica del concetto di Stato-partito si risolvono in un danno delle ragioni della autorità, e solo un’illusione ottica e un cieco spirito di parte possono trarre a credere il contrario.
Lunga e laboriosa è questa crisi che travaglia la vita pubblica italiana e che è anzitutto una crisi di autorità. Alla negazione assurda dello Stato e della patria da parte di moltitudini folli e inconsapevoli, è seguita l’affermazione arbitraria di un partito, che identificando se stesso con lo Stato, ha posto fuori di esso e contro la nazione i suoi avversari politici, continuando un duello mortale che minaccia di spezzare l’unità spirituale del popolo italiano; mentre opera più nobile, anche se più ingrata e più ardua, sarebbe stato ricondurre nell’ordine e nella legge all’amore della madre comune, e pacificare nella patria, più grande per la nuova sventura, lo spirito inquieto di quel popolo, che la patria esaltò col sacrificio dei suoi figli nella gloria di Vittorio Veneto. (…)
L’articolo è apparso su L’Ausa del 6 dicembre 1924 col titolo “Le cose a posto”. È stato ripubblicato a cura di Piergiorgio Grassi su “Dagli intransigenti ai popolari. Il Movimento Cattolico a Rimini 1870-1926” (edito da Bruno Ghigi, Rimini 1979)