PESTE IN ROMAGNA (2). La grande epidemia del 1630 piega ma non spezza Rimini, che riesce a resistere fino al termine dell’emergenza. La ricostruzione
Prosegue il racconto della drammatica epidemia di peste che colpì l’Italia nel 1630. Una delle più note, perché raccontate anche da Manzoni ne I Promessi Sposi.
Un evento che ebbe un impatto enorme anche in Romagna, come illustrato da un interessante approfondimento pubblicato diversi anni fa dalla rivista storica Ariminum (ad opera di Fabrizio Barbaresi). Approfondimento che, basandosi su fonti storiche dirette, racconta anche di come la città di Rimini riuscì a resistere a questa emergenza, non senza difficoltà, fino al suo termine nel 1631. Di seguito, un estratto di questo lavoro.
“Il giorno 6 di luglio il Pedroni riferisce che « per ditta causa (la peste) si sta con universal timore.
Il pesce si mangia non senza il medesimo sospetto poiché li corpi che si ritrovano nella spiaggia si dubbita che non siano corpi di appestati et che il pesce se ne ciba ». Il giorno 7 di luglio il Pedroni fornisce la ricetta di un « Remedio contra la Peste » di cui gli ingredienti principali sono una cipolla da tagliare in due e la Triaca (o Teriaca), una sorta di rimedio universale conosciuto fin dall’antichità. Tra i suoi 50 ingredienti di origine vegetale, animale e minerale c’era anche la carne di vipera, quale simbolo del veleno pestoso che si voleva combattere. Essendo di complessa preparazione la Triaca era molto costosa. Per i poveri c’era la triaca minore, fatta con semi di limone, pane tritato, aceto, ruta e cipolla. Il 9 di luglio toccò ai padri Eremitani di S. Agostino organizzare la processione « andando tutti ordinatamente scalzi, implorando il divino aiuto per li soprastanti flagelli di Dio ». La tesi del tutto aberrante che la peste, come altre calamità, accadano per un castigo divino è durata molti secoli. Se Dio è Amore, le cause vanno ricercate sicuramente altrove. Le processioni continuano nel mese di agosto e a quella della mattina si aggiunge un’altra alla sera « pregando il Signore di preseruarci dalle imminenti calamità »”.
La peste in Emilia e lo scenario riminese
“Tra le notizie riportate nei Diari del Pedroni nella prima metà di agosto ci sono quelle che riguardano la città di Parma colpita dalla peste. Il Governatore di Rimini, caro amico del Pedroni, ha un fratello sacerdote, canonico nel Duomo di Parma, che contrae la peste per aver confessato due suore ammalate. Il Governatore si recò a Parma per avere notizie ma venne fermato ai ‘cancelli’, una sorta di posto di blocco a sette chilometri dalla città, oltre non si poteva andare. Riuscì a parlare con due gentiluomini di Parma, che erano andati lì a cercare delle lettere. Il quadro che descrivono è sconvolgente.
Nei due giorni precedenti sono spirate 500 persone, la città era rimasta « senza confessori, senza aiuto alcuno, senza cure e vettovaglie, in modo che chi non muore di peste muore di fame! ». Nobili e cittadini scappati dalla città hanno nella campagna vita difficile. « I villani per hauer la roba ammazzano i cittadini e Gentiluomini et fanno le più barbare crudeltà a essi signori ». La peste da problema sanitario diventa un problema sociale e di ordine pubblico. Mons.
Mattei lo sapeva bene infatti si spostava con una squadra di sbirri e il boia. Il « 31 Agosto 1630, che fu giorno di sabbato, fu aperta la Porta di S. Andrea di Rimino, la quale fu chiusa per li presenti sospetti di contagio a dì 22 giugno 1630 in giorno di mercore, alla quale porta furono messe le guardie al modo di prima ». La chiusura della porta di S. Andrea aveva causato grossi disagi agli abitanti dell’entroterra che per entrare nella città dalle altre due porte rimaste aperte (quella di S. Giuliano, di fronte al Ponte di Tiberio, e quella di S. Bartolomeo) erano costretti a guadare l’Ausa o il Marecchia « tanto con bestie e carri tanto senza ». Il 9 di settembre il nostro cronista annota che continuano le processioni per « essere preseruvati dalle peste ». Fa un lungo elenco di città “maltrattate” dalla epidemia in Romagna come Lugo, Bagnacavallo e Russi.
Il 26 settembre, non bastasse la peste alle porte, c’è una alluvione che inonda il Borgo S. Giuliano. Il Pedroni annota, con la diligenza che lo contraddistingue, che « annegò un grosso porco nella possessione del Zippone » (chissà dov’era). Il 14 di ottobre, festa del Patrono, la processione di S. Gaudenzio fu solenne, in quanto alla presenza di religiosi, ma senza musica e con poco popolo « e non passò l’antichissimo arco d’Ottaviano (di Augusto) per causa de presenti sospetti di contagio »”.
La fine dell’emergenza (ma non della paura)
“Con l’autunno le notizie sulla peste nei Diarij del Pedroni si fanno rare, il pericolo sembra essere scampato. Comunque ancora il 3 gennaio 1631 il canonico annota che « Li soldati Perugini a cavallo messi a presidio della città di Rimino furono anco in questa sera, che è venere, destinati alla guardia della Marina per guardare con diligenza che non sbarchi in terra genti forestiere sospette di contagio ». Il 7 di gennaio 1631 è a Rimini Mons. Mattei, arrivato il giorno prima, « per causa del suo ufficio ». Riguardo i forestieri in viaggio ribadisce che essi abbiano con sé la Fede di Sanità per poter entrare in città. « Partì a dì di notte per la volta di Pian di Meleto (alta valle del Foglia) dove si è inteso esserci poco lontano su quel del Gran Ducato di Toscana state serrate certe case, nelle quali vi erano morte persone di mal contagioso di Peste, a far quelle provvisioni che giudicava necessarie ». Il personaggio cruciale nella vicenda della peste in Romagna del 1630 è indubbiamente Gaspare Mattei, un monsignore che « menava sempre seco i sbirri ed il boja con cavezze fatte ». Mattei riuscì ad evitare il propagarsi dell’epidemia di peste in Romagna adottando una tattica discutibile, ma efficace, fatta di cordoni sanitari impenetrabili e pene severissime.
In Romagna l’epidemia di peste si esaurì nell’autunno del 1631, ma ancora nel febbraio del 1633 si controllavano i forestieri che giungevano a Rimini chiedendo la Fede di Sanità’ alle porte della città: Mons. Mattei non aveva abbassato la guardia”.